La scuola, l’università, la formazione e il lavoro

di Cristiano Abbadessa

Da che ho memoria, praticamente ogni ministro dell’Istruzione (dal nome del dicastero è sparito “pubblica”, e non è un caso: ma questa è un’altra storia) ha presentato il suo piccolo o grande progetto di riforma della scuola e, con più parsimonia, dell’università. Puntualmente, gli studenti e gli insegnanti, talora con motivazioni diverse, hanno bocciato i provvedimenti ipotizzati e proclamato agitazioni nelle diverse forme.
Nell’autunno del 1978, quando ero al liceo, l’oscuro ministro Pedini (una meteora nello statico panorama politico italiano) presentò un suo progetto di riforma per la scuola superiore: ipotesi che durò poco o nulla, perché di lì a poco il Pci ritirò l’appoggio al governo monocolore democristiano, dichiarò esaurita l’esperienza della solidarietà nazionale e ci furono lo scioglimento delle camere e le elezioni anticipate. Il progetto di riforma di Pedini teneva conto degli equilibri politici dell’epoca e strizzava l’occhio alla sinistra, soprattutto in forma di diffuse manciate di demagogia: ricordo, per esempio, che veniva riformato anche l’esame di maturità, adottando una formula così lieve e accomodante da garantire a tutti non solo la promozione ma anche buoni voti. Tuttavia, i movimenti degli studenti contestarono ugualmente la riforma, asserendo che essa prevedeva “una scuola funzionale al sistema economico e produttivo” anziché alla formazione e alla crescita culturale dei giovani; il presupposto su cui si basava questo giudizio stava in alcune misure che il ministro pensava di introdurre per gli istituti tecnici e professionali, finalizzando maggiormente l’apprendimento all’ingresso nel mondo del lavoro attraverso l’inserimento nei programmi di materie legate allo sviluppo tecnologico e forse prevedendo persino contatti (stage? forse non si diceva ancora così) col mondo delle imprese.
Con il passare degli anni abbiamo visto movimenti studenteschi protestare per chiedere esattamente quel che allora proponeva il ministro, andando oltre e chiedendo di porre il carattere pratico della formazione al centro dell’insegnamento. Se devo però rifarmi all’esperienza personale, mi sento di poter dire che la scuola, e soprattutto l’università, hanno trovato nel tempo, sul tema, una via di mezzo solo apparente, che molto assomiglia alla media statistica del mezzo pollo di Trilussa.
La mia sensazione è che si sia partiti da una netta distinzione tra le facoltà tecniche (in senso ampio) e quelle umanistiche. Nelle prime lo studente apprende tutti gli strumenti tecnici utili allo svolgimento della professione, con tanto di specializzazioni molto specifiche. Mancando però un respiro culturale più ampio, spesso tali strumenti restano mere tecnicalità, di cui il laureato saprebbe servirsi a patto che qualcuno gli dicesse come e dove. Manca, insomma, quella capacità di analisi dell’esistente che poi consente di adottare delle misure che possono anche richiedere una competenza tecnica.
Non posso, per ragioni di mia inadeguatezza in materia, valutare per tutte le categorie quanto questo sia vero. Ho però preso atto con sconforto di casi di neolaureati in economia e affini (quelli che oggi sono “i tecnici” per eccellenza) che proponevano strategie di marketing e sviluppo imparate sui banchi, senza far differenza tra l’essere chiamati a pianificare (sono esempi ipotetici) il lancio di Autodafé edizioni o la soluzione di una crisi del gruppo Mondadori. Ricette uguali, senza tenere conto di un contesto che non sanno leggere e discernere, per questi cosiddeti esperti del problem solving che in realtà non servono a nulla: perché se non hai capito il problema, è un po’ presuntuoso (oltre che inutile) pretendere di proporre una soluzione.
Se i laureati tecnici si avvicinano al mondo del lavoro reale con la presunzione di chi ha la verità in tasca pronta all’uso e una speculare assenza delle basi dell’interpretazione del mondo, mia impressione è che chi esce dalle facoltà umanistiche non abbia invece acquisito, almeno all’interno dei corsi di studio, neppure una vaga conoscenza del mondo del lavoro, a cominciare da quelle stesse professioni che (tolto il mero reinsegnamento dell’appreso) dovrebbero essere connesse al titolo conseguito.
Nello specifico, allibisco nel rendermi conto di quanto i laureati in lettere siano fermi alla pura cultura letteraria ma nulla conoscano dell’industria editoriale, delle forme di lavoro in cui si esplica oggi la comunicazione, delle filiere e dei processi. Capita di parlare con giovani che vorrebbero lavorare nel settore, e magari proprio nell’editoria libraria e narrativa, e non sanno come nasce un libro, che cosa è una scheda di lettura, come si scrive una recensione e qual è la sua funzione; non si parla qui di addentrarsi troppo nei dettagli della professione, ma almeno di conoscerne le basi e i fondamentali. Eppure anche questi laureati hanno seguito indirizzi specifici, che avrebbero dovuto andare oltre la pur necessaria formazione culturale per cominciare ad avvicinare lo studente almeno alla vaga idea di come funziona l’industria editoriale (visto che di quella vogliono occuparsi, sulla base del titolo che gli è stato riconosciuto).
Che il sistema formativo sia rivedibile è sicuro. Che scuola e università necessitino di una nuova riforma e che debbano rivedere i loro obiettivi è altrettanto certo. Così come palesi sono le colpe della politica e quelle degli esperti del settore. Mi domando, però, se certe disfunzioni nascano solo da errori e da scarsa capacità di intervento. Perché, maliziosamente, mi viene da notare che un mondo di neolaureati che, per una ragione o per l’altra, non sono affatto pronti per l’ingresso nel mondo del lavoro costituisce il presupposto necessario per il mantenimento nel tempo di un bacino di manodopera a basso costo costretta per anni a barcamenarsi tra stage gratuiti, miseri contratti di formazione lavoro, impieghi sottopagati: sempre ringraziando il datore che è tanto gentile da fornire un’opportunità. E, in più, questo stato delle cose può anche alimentare quel vasto mercato di costosi master e meno prestigiosi corsi di formazione professionale specifica che, finalmente, cominciano per davvero a spiegarti qualcosa del lavoro che in futuro vorresti fare.

2 commenti

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2 risposte a “La scuola, l’università, la formazione e il lavoro

  1. Fabio

    Ritengo che il problema, almeno per come lo vedo io dall’interno, sia molto più semplice (e quindi più drammaticamente complesso) di così: c’era una volta la scuola gentiliana, che si proclamava programmaticamente e consapevolmente classista; in quel mondo dicotomicamente diviso la formazione vasta delle humanae litterae serviva a dare una sorta di humus culturale ai liceali ed un metodo di studio spendibile in un iter accademico forse caratterizzato da un eccesso di speculazione, ma di altissimo profilo teorico: esemplare la straordinaria competenza diagnostica dei medici sfornati da quel sistema e la non sempre efficace capacità terapeutica degli stessi. All’interno di questa logica l’avviamento professionale serviva invece a dare una vaga infarinatura alle future classi subalterne, che avrebbero dovuto svolgere i lavori tecnici e manuali. Tutto ciò era profondamente ingiusto, ma a suo modo coerente.
    Poi è arrivata la contestazione, la TV, la società di massa è tutto è diventato in teoria più giusto. Nella realtà invece è successo che i licei si sono sfarinati in una gelatina di dubbie competenze (oltre al classico e allo scientifico sono sorti il linguistico, l’artistico, addirittura il turistico, il coreutico…) dove la valutazione oscilla fra un certo lassismo di massima e alcune impennate di isterica ed estemporanea severità nostalgica del ventennio. Ma il disastro vero è avvenuto nelle scuole professionali, dove non solo la formazione di quella che lì viene chiamata cultura generale è definitivamente tramontata (conosco insegnanti di lettere picchiati solo perché avevano fatto sommessamente notare che “un’amica” si scrive con l’apostrofo), ma addirittura l’insegnamento tecnico è quasi sempre molto superficiale e non, come sostiene Abbadessa, per un’eccessiva impronta teorica, bensì per la stessa sprezzante intimidazione che subiscono gli insegnanti che vogliano dirozzare individui che “crescono” nel mito del grande fratello (e non quello di Orwell) e del successo facile di calciatori milionari e veline.
    Non affronto il tema dell’università, perché a mio avviso è un’istituzione ancor più in crisi e non potrà risollevarsi finché le sue radici, cioè la scuola secondaria, non verranno sanate.
    Sintetizzando il problema non è solo che un laureato in lettere (o un diplomato del liceo Classico che sia) non sappia da subito compilare una scheda di lettura per un editore: il problema è che, oltre a non saper fare ciò, non ho più quasi mai una conoscenza vasta e consapevole della letteratura che gli permetta in pochi mesi di imparare a compilare un’eccellente scheda e molto altro.

  2. Ho lavorato in licei e università. Mentre studiavo erano in cattedra docenti di formazione gentiliana e quando è toccato a me il ’68 bussava alla porta.
    Parlare e scrivere di questi argomenti mi attira ormai poco. Provo a riprendere alcune riflessioni in forma aneddotica.
    Ho frequentato il classico, come prima di me buona parte della parentela. Non era prevista più la composizione in latino e neppure, salvo qualche frasetta al primo anno, la traduzione dall’italiano in greco. Gli adulti lamentavano l’ignoranza montante.
    All’università ho studiato, come d’obbligo, le tre critiche kantiane. I miei studenti possono sostenere gli esami di teoretica o estetica senza averlo fatto, e io dico che la lacuna è grave.
    In compenso leggono autori e praticano ambiti disciplinari nuovi e differenti. Non sempre li padroneggiano nel modo che ritengo adeguato.
    Insomma, nel “sapere” escono via via una serie di argomenti e altri ne entrano, fatalmente. Il problema di fondo è, in sintesi, quello di assicurare mediante il corso di studi, il possesso dei cosiddetti requisiti di base: padronanza logico-linguistica, analisi- sintesi, attitudine critica eccetera.
    Il necessario rinnovamento dei contenuti più adatti allo scopo richiede competenza, onestà culturale, assenza di finalità “altre”. Non direi che queste doti abbiano caratterizzato gli addetti all’istruzione. Che, appunto, ha perso anche il nome di “pubblica”.

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