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La vendita diretta, l’Agora e i paradossi della distribuzione

di Cristiano Abbadessa

escherQualcuno, dopo aver visitato l’Agora, mi ha fatto sapere di aver tratto la conclusione che abbiamo rinunciato all’ipotesi di cercare un distributore nazionale (o una fitta rete di distributori locali) per concentrarci sulla vendita diretta ai lettori e sul contatto con le librerie senza intermediazioni. Tale convinzione era maturata notando il potenziamento dello store, l’introduzione di nuove forme di pagamento, la promozione rivolta direttamente ai lettori e ai librai.
La conclusione è ovviamente errata, e forse una visita più completa a tutti gli spazi dell’Agora avrebbe evitato di tirare somme affrettate. Continua a leggere

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Se nessuno vuole vendere libri

di Cristiano Abbadessa

Provo a tornare, dedicandoci un paio di post, sulla questione del libro “edito e prepagato”, tentando di motivare le ragioni di questa necessità, che può apparire a prima vista opportunistica pretesa. In questa prima parte, lo faccio dando un’occhiata alle figure professionali della filiera editoriale.
Riparto, ancora una volta, da uno sguardo al corposo archivio in cui raccogliamo le proposte di collaborazione che vengono inviate alla nostra casa editrice. La stragrande maggioranza riguarda, come prevedibile, coloro che si offrono per un’attivita di tipo redazionale, con curriculum che vanno a coprire tutto il possibile mansionario: lettori, redattori, correttori di bozze, e via salendo fino a chi si propone come editor di collana o direttore editoriale. Non sono pochi nemmeno quanti si offrono come grafici (qui inteso come impaginatori), per lavori di segreteria, per pubbliche relazioni e ufficio stampa, per l’organizzazione di eventi e presentazioni, per la cura e l’implementazione di spazi web. Tutte proposte plausibili, spesso e volentieri motivate da un buon bagaglio di studi ed esperienze; proposte frustate dal fatto che i soci di Autodafé si sono divisi questi compiti e li svolgono in proprio, ma certamente ragionevoli. Infine, e non sono pochi, ci sono quanti si propongono come illustratori, disegnatori, traduttori, grafic-designer (qui inteso come creatori di copertine); tutte figure professionali di cui non ci serviamo, e per le quali forse basterebbe una vaga conoscenza della casa editrice e dei suoi prodotti per risparmiare l’invio di un curriculum che certamente non ci può servire (parlo della minima conoscenza che si può acquisire attraverso il sito, dove si vede quali sono le nostre copertine, che i libri non sono illustrati e che non pubblichiamo autori stranieri; anche se riterrei doveroso che chi invia una proposta di lavoro avesse almeno preso in mano qualche libro dell’editore cui si rivolge).
In questa ampia offerta mancano del tutto (o quasi) proposte relative all’attività commerciale. Qualcuno accenna a questo aspetto, ma più che altro dando l’impressione di immaginare di poter essere in grado di tenere i rapporti con un distributore, non però di occuparsi in prima persona dei contatti con le librerie, dell’organizzazione di fiere e banchetti, della creazione di una piccola rete di vendita per conto della casa editrice. Forse gli agenti e i venditori non pensano sia utile proporsi a un editore, ma eventualmente a un distributore; obiezione discutibile, nell’attuale mercato editoriale, e comunque non suffragata dalle considerazioni che seguono.
Oltre alle proposte individuali di lavoro, infatti, nelle nostre caselle mail arrivano anche offerte aziendali. Che, nella quasi totalità (a parte qualche service editoriale a ciclo completo), riguardano il processo di produzione, e segnatamente la fase di stampa (già più raro trovare chi offre anche un magazzino). Proposte plausibili, che vengono girate al socio che si occupa del processo di produzione, ma ancora una volta monotematiche.
Anche qui, non dico che nessun distributore “adulto” (magari piccolo, di nicchia e specializzato) viene a cercarci, ma non esiste nessuna struttura o compagine che pensi di esplorare il settore, sondi l’interesse, provi a capire se i piccoli editori sarebbero interessati a una società in grado di occuparsi di distribuzione e vendita, curando in particolare i rapporti con le librerie indipendenti.
Eppure, guardando anche alla realtà dei nostri “colleghi e concorrenti”, mi sento di dire che questo tipo di attività promozionale e commerciale avrebbe buone opportunità. Anche perché suppongo che troverebbe una buona accoglienza presso i librai indipendenti, specie medio-piccoli, che si rivolgono al grande distributore per creare il magazzino coi soliti titoli noti, ma probabilmente gradirebbero la mediazione di una struttura competente e affidabile per la scelta dei titoli da scoprire, senza sfiancarsi nella gestione di una miriade di contatti coi singoli piccoli editori. Qualche libraio preferisce il contatto diretto, selezionando con cura pochi interlocutori e diventando il punto di riferimento per un numero limitato di editori (abbiamo anche noi i “nostri” punti vendita privilegiati); ma i più, legittimamente, ambirebbero a poter tenere i contatti con un ragionevole e circoscritto numero di distributori organizzati e seri, ciascuno con un proprio carnet di editori, magari con specializzazioni di settore.
Francamente mi stupisce un po’ il fatto che tra i numerosi amanti della letteratura e dei libri nessuno si senta vocato, a livello individuale o collettivo (cioè con l’ambizione e la capacità di costruire una piccola società), per l’attività di promozione e vendita. Anche perché ritengo che questo tipo di lavoro non sia adatto al famoso venditore generico (quello che “sa vendere di tutto a chiunque”), ma richieda competenza specifica, amore per la letteratura, capacità di analisi e di sintesi, conoscenza del prodotto e delle esigenze di tutti gli attori della filiera.
Possibile che tra i tantissimi amanti dei libri non esista nessuno con queste attitudini e con la voglia di provare a esplorare un terreno che, così concepito, è quasi vergine e potrebbe essere fertile?
Perché è vero che, in un’economia di mercato, l’editore che sopravvive dovrebbe essere quello che riesce a vendere i propri libri. Ma esiste, oggi, qualcuno disposto a occuparsi per davvero, e come attività principale, della vendita dei libri dei piccoli editori?

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L’e-book e il distributore che deprezza gli editori

di Cristiano Abbadessa

Fin dalla nostra costituzione, come sapete, abbiamo deciso di realizzare anche in formato digitale tutte le opere selezionate per la pubblicazione nel tradizionale formato cartaceo. E, come si può vedere già dalla nostra home-page sul sito, abbiamo scelto come distributore e come store principale BookRepublic, società all’epoca appena costituitasi.
All’inizio BookRepublic ha stretto una serie di accordi con editori medi e piccoli. Questo, pur senza poter produrre risultati fantasmagorici in un settore che ancora doveva iniziare a esistere o quasi, ha garantito una discreta visibilità a tutti noi: le offerte, le iniziative speciali, le vetrine e le promozioni si alternavano in modo equo, dando spazio a tutti, e le strategie di marketing sul prodotto specifico ricevevano fra l’altro il contributo di suggerimenti e proposte che venivano dallo stesso distributore e venditore.
Nel giro di alcuni mesi anche i grandi editori, inizialmente freddini e forse anche indecisi sulle scelte di fondo, sono entrati massicciamente nell’editoria digitale e, seppure in via non certo esclusiva e talora neppure prioritaria, sono entrati a far parte dell’offerta distributiva di BookRepublic, la cui piattaforma si è qualificata come la più completa in ambito italiano. Buon per loro, anche se ovviamente la presenza dei grandi editori e dei relativi bestseller ha tolto spazio e visibilità ai piccoli pionieri che da subito avevano sposato il progetto, con le inevitabili conseguenze.
Poi BookRepublic ha deciso di darsi anche all’attività editoriale; e qui la scelta fa già meno piacere, perché ancora una volta ci si ritrova in quella situazione, ben nota nella filiera tradizionale, in cui il distributore nonché venditore è anche produttore in proprio. Comunque, inizialmente è parso che i prodotti editoriali pensati da BookRepublic avessero un loro specifico, fossero sostanzialmente diversi dal libro tradizionale, più agili e brevi, pensati per un consumo in modalità definita, con tempi brevi di lettura, foliazioni ridotte e prezzi conseguentemente bassi.
Infine però, come orgogliosamente rivendicato nelle ultime dichiarazioni uscite anche sulla stampa nazionale in occasione della tradizionale festa di fine stagione, quello che era nato come un distributore su piattaforma digitale ha preso a pubblicare, da editore, anche titoli del tutto tradizionali, sposando la moda dell’autopubblicazione e sostenenendone la validità. In sostanza, BookRepublic prende dei prodotti “finiti”, cui manca solo la trasformazione in formato epub (che comporta poche ore di lavoro) e li mette in vendita, spartendo gli incassi con l’autore: la trasformazione in epub è l’unica attività “editoriale” che viene svolta, mentre tutto il resto del lavoro resta, evidentemente, a carico dell’autore. Non essendoci i costi di una tradizionale produzione industriale su carta (né per l’autore né per l’editore), la proposta risulta allettante per gli aspiranti autori e l’editore, che in realtà esercita solo l’attività di distribuzione e vendita (tolto quel minimo lavoro di grafica), può permettersi di invadere il mercato con opere a bassissimo prezzo.
Come ovvio, ciascun autore è libero di decidere per l’autopubblicazione, anche se questo termine può voler dire tutto e il suo contrario; perché io resto ben fermo nell’idea che un attore non può recitare tutte le parti in commedia, e che, quindi, un autore serio, anche avendone le capacità professionali, non farà mai il lavoro dell’editor e della redazione sulla sua propria opera. Dunque, nel nostro caso dovremmo avere autori che, a pagamento, rifiniscono la creazione ricorrendo a valide agenzie di servizi editoriali. Oppure, come temo, avremo dei libri “fatti in casa” che vengono allegramente pubblicati senza alcun lavoro editoriale e redazionale alle spalle.
È a questo punto che mi sorgono degli interrogativi. Come vengono scelti e con quali garanzie i libri “autopubblicati” che BookRepublic immette sul mercato? Per caso, BookRepublic dà per scontato che gli autori provvedano in proprio a pagarsi i costi redazionali, oppure più semplicemente ritiene che l’attività di un editore tradizionale sia in buona parte inutile? O, al limite, non gliene importa nulla?
E, dall’altra parte, in mancanza di chiare risposte a questi interrogativi mi nascono domande circa l’atteggiamento che gli editori presenti nella distribuzione di BookRepublic dovrebbero coerentemente tenere di fronte a una partnership con chi, forse, giudica inutile la loro funzione. A maggior ragione qualche dubbio sulla presenza in catalogo viene a me, visto che la nostra casa editrice ha sempre posto al centro del proprio essere (come editore, ma anche come fornitore di servizi) l’importanza di un accurato e attento lavoro redazionale svolto da professionisti. Onestamente, non mi fa molto piacere collaborare con chi, neppure a mezza bocca, sostiene nei fatti e nei proclami che il futuro è nell’autopubblicazione (senza nulla dire circa le forme di garanzia sulla qualità del prodotto, che sono poi una tutela per il lettore e non un’ubbia dell’editore).
Come sempre, pongo le domande e apro il dibattito. Poi, se del caso, faremo anche le scelte conseguenti.

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L’estate, il pane e il commercio a rischio zero

di Cristiano Abbadessa

È arrivata l’estate. A dirmelo non è il calendario, il caldo o il lento affievolirsi dei ritmi metropolitani, ma la difficoltà di comprare il mio pane dal mio panettiere. Perché è un problema che ogni anno, quando si entra davvero nella stagione estiva, si ripresenta implacabile, ben prima della chiusura per ferie.
Il mio panettiere è anche fornaio, ma produce in proprio solo pizze, focacce e dolci; il pane, invece, lo fa arrivare da un fornitore. Delle numerose qualità che allinea, solo una è a mio parere mangiabile, perché è l’unica di pane di grano duro, in forma di pagnotta di una certa consistenza; tutto il resto, in effetti, è un florilegio di formine classiche o fantasiose, ma del medesimo impasto e con identica volatilità. D’altra parte, alternative non ce ne sono, perché nel quartiere, a portata di piedi, c’è solo questo panettiere, oltre a un supermercato presso il quale rifiuto la sola idea di comprare pane per ragioni di tempo e per avversione verso la grande distribuzione.
La mia pagnotta di grano duro pesa mezzo chilo, e non la compro tutti i giorni perchè a volte ne avanza quanto basta per il giorno successivo. Gentilmente, il panettiere mi tiene da parte, di sua iniziativa, una pagnotta ogni giorno: io passo verso metà mattina e di solito la compro, ma se decido che non mi serve passo ugualmente e, ricambiando la cortesia, avverto che non prendo il mio pane e che può venderlo a chi ne faccia richiesta. Il sistema, evidentemente, durante l’anno funziona: qualcuno passa in tarda mattinata, altri addirittura comprano il pane per la cena rientrando dal lavoro, e prendono quel che trovano, finendo per esaurire la merce sugli scaffali, compresa la mia eventuale pagnotta non acquistata.
In estate, pare che il sistema non funzioni più. Non so se perché tutti scendono più presto a fare la spesa, o se perché il cambiamento di ritmo lavorativo fa sì che nessuno passi nel pomeriggio. Fatto sta che, a quanto sembra, se io arrivo a metà mattina a dire, quando succede, che quel giorno non compro il mio pane, allora la pagnotta resta invariabilmente invenduta. Il panettiere, pertanto, pretende che io sappia dirgli il giorno prima se il giorno seguente comprerò o meno il pane: altrimenti non lo ordina, perché “non va via” (si vede che mangio solo io quel tipo di pane).
Sono molto sensibile allo spreco di generi alimentari, anche perché appartengo a quella generazione capricciosa e viziata (la prima in Italia dopo un paio di guerre e tanta fame) che magari il pane lo snobbava e che, nelle grasse pieghe del boom e del primo benessere gastronomico piccolo borghese, aveva anche la tentazione di avanzare qualcosa nel piatto; quella generazione alla quale i genitori, che invece nell’infanzia avevano vissuto le miserie della guerra, predicavano che il cibo non si butta, talvolta evocando quei bambini che nel mondo povero morivano di fame (e questa cosa era già meno comprensibile, perché nessun bambino della società opulenta ha mai capito in che modo il piccolo africano col pancione gonfio poteva trarre vantaggio dal fatto che il pasto venisse interamente consumato, visto che a mangiarlo era il “ricco” e non il povero, il quale la fame se la teneva in ogni caso).
Tuttavia, nonostante questa sensibilità, rifiuto categoricamente l’idea di prenotare il pane per il giorno seguente. Che, tradotto, vorrebbe dire sapere esattamente cosa farò e cosa mangerò nell’arco della giornata. Preferisco non trovare il mio pane piuttosto che dover stabilire a priori che a mezzogiorno sarò a casa e mangerò questo o quello, che la sera non uscirò di sicuro, che cucinerò un ricco piatto di carne con verdure e intingoli (molto pane) piuttosto che un piatto di pasta con i broccoli (un po’ di pane) o un riso al forno con patate (zero pane). Mi tengo la mia fetta di libertà e rinuncio alla mia fetta di pane, o vado a rifornirmi altrove di quegli ottimi pani rustici e ruvidi che durano due-tre giorni, rassegnandomi a spostamenti in auto un paio di volte alla settimana per cercare il pane adatto.
Quel che mi fa un po’ arrabbiare è che io, comunque, quattro o cinque pagnotte ogni settimana le compro; per cui il rischio, per il panettiere, è di buttarne un paio a settimana, se proprio in estate non riesce a venderle ad altri dopo le 10 del mattino. Dunque, alla fin fine mi ritrovo di fronte a uno di quei commercianti che vogliono azzerare il rischio e tenere in negozio solo merce che è di fatto già venduta (e sulla quale peraltro pago un bel ricarico che dovrebbe essere dovuto proprio al “rischio d’impresa”).

Poi però, per inevitabile associazione di idee, penso che io sto qui a prendermela col mio panettiere, che si preoccupa di non avanzare merce deperibile, mentre devo fronteggiare da editore librai che ragionano allo stesso modo, ordinando solo libri già richiesti (e perciò venduti) o titoli noti che possono essere in qualche modo “rifilati” a chi non ha trovato quel che cercava. E che, per contro, rifiutano la sola ipotesi di provare a tenere sugli scaffali libri e case editrici di cui poco o per nulla hanno sentito parlare, scartando l’ipotesi di provare a vedere il prodotto e magari persino consigliarlo, se per caso l’hanno letto e trovato valido. E dire che i librai, a differenza del panettiere, non solo non trattano merce deperibile, ma neppure la pagano; perché se tengono un libro non lo fanno a loro spese e hanno sempre la possibilità di restituirlo.
Mi ritrovo dunque a interrogarmi su quali motivi spingono troppi librai a una pigrizia intellettuale tale da fargli azzerare ogni “rischio”, fosse anche solo quello di aprire un canale di comunicazione, gestire un rapporto di conto deposito e, se capita, provare a scoprire qualcosa di nuovo.
Mi interrogo e, come sempre, non trovo risposta.

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Quando a strozzare il creditore è un debitore “virtuoso”

di Cristiano Abbadessa

Le cronache di queste settimane riportano di continuo i casi di imprenditori che si trovano nell’incomoda posizione di debitori fallimentari ma che, nel contempo, vantano crediti che li rimetterebbero in sesto, se solo venissero pagati a scadenza. Quasi sempre si fa riferimento ai crediti vantati verso lo Stato, gli enti pubblici, le amministrazioni locali, che sono diventati dei debitori, se non insolventi, certo insopportabilmente lenti nel corrispondere il dovuto. Tanto che ci sono state alcune proposte politiche, come quella del coordinatore Pdl Angelino Alfano, volte a consentire agli imprenditori di rivalersi in forma compensativa, così da non essere costretti a pagare con immediatezza uno Stato che, dall’altra parte, impiega anni per sistemare le pendenze coi creditori.
Naturalmente, nella penuria di liquidità, non è solo la pubblica amministrazione (entità in certo modo impalpabile, distante e astratta) a rivestire i panni del debitore inadempiente che mette in ginocchio il creditore. Spesso e volentieri a non pagare per tempo sono imprese private, quando non singoli cittadini, che scaricano le proprie difficoltà economiche su altri soggetti, di norma a loro volta costretti in gravi ristrettezze e in lotta per la sopravvivenza.
Nel nostro settore editoriale, per esempio, capita più spesso di quanto si creda che si finisca per strangolarsi a catena, col denaro che non gira, o gira poco, e piccole imprese creditrici costrette a soffrire i ritardi dei debitori. Storie tutt’altro che insolite, che vedono alternarsi nel ruolo di vittime i diversi attori della filiera produttiva e commerciale, e in cui chi ha più pelo sullo stomaco e meno scupoli riesce a sopravvivere a spese di chi è più puntuale e corretto.
La cosa piuttosto seccante, per un piccolo editore, è che spesso si ritrova a vantare crediti nei confronti di soggetti “insospettabili”, che godono di buona fama e della patente di virtuosi operatori del mondo culturale. Mi riferisco, in particolare, ad alcune (sottolineo: alcune, non certo tutte) librerie indipendenti di buon prestigio e discreta notorietà, sostenute dalla simpatia di lettori “eticamente sensibili” e pronte a impancarsi per dare lezioni contro le grandi catene commerciali e la distribuzione concentrata nelle mani di pochi.
Capita purtroppo, all’editore giovane e ignaro, di fidarsi di queste librerie di buon nome, a volte contattandole direttamente, a volte finendoci sulla scia di iniziative e presentazioni promosse da volonterosi autori, ben contenti di essere riusciti a conquistare l’attenzione di punti di riferimento noti e stimati. Succede così di organizzare eventi, di affidare alla libreria un po’ di copie per la vendita, di realizzare un teorico incasso che non sarà quello di un bestseller ma che potrebbe aiutare, per ritrovarsi poi a mesi di distanza con fatture da lungo tempo inevase, che giacciono senza un cenno di risposta. Quando, in casi peggiori, non capita addirittura che il locale di tendenza del momento conosca un prematuro declino e scompaia (e i titolari con lui) lasciando una scia di insoluti che tali resteranno in eterno.
I piccoli editori che, come noi, si servono (o si sono serviti) di distributori locali hanno spesso avuto occasione di lamentarsi per il mancato approdo in librerie note e stimate, lamentandosene col distributore. Il quale spesso risponde che bisogna stare attenti, perché ci sono librerie che non pagano. Di solito la risposta viene scambiata per una scusa accampata da distributori pigri e poco solerti; purtroppo, spesso è invece la verità, e l’amara esperienza diretta ha indotto il distributore a cancellare alcuni librai dal proprio giro promozionale. Così il piccolo editore che ha magari deciso di far da sé, insoddisfatto per la scarsa capacità di penetrazione del piccolo distributore, si ritrova a segnare effimeri successi e la comparsa su qualche scaffale di un certo prestigio, salvo poi ritrovarsi a scoprire che l’etico e stimato libraio indipendente è un allegro debitore che non salda le fatture.
Si tratta di una situazione evidentemente non tollerabile, specie per le piccole imprese editoriali. Quelle, per intenderci, che se hanno in giro un po’ di fatture non pagate di qualche centinaio di euro ciascuna si ritrovano a non poter mandare in stampa un titolo, a meno che non abbiano la disonesta cialtroneria di prepararsi a scaricare sullo stampatore gli effetti del mancato pagamento.
Quel che disturba è che questa pessima, e disonesta, usanza sia allegramente praticata da chi si riempie la bocca di belle e altisonanti parole sulla libera circolazione della cultura, l’indipendenza dalla grande industria editoriale e tutto quanto fa scena, spettacolo e simpatia. Un predicar bene cui si accompagnano prassi che in realtà strozzano e rischiano di uccidere proprio i piccoli soggetti editoriali indipendenti, i primi ai quali non si salda il dovuto forti della cinica considerazione che sono i più deboli e i meno interessati a recidere un rapporto.
Per stavolta mi sono limitato a fare un discorso generale. Ma credo che a breve seguiranno i nomi, anche e soprattutto per tutelare tutti quei librai che, invece, perseguono pratiche correttamente virtuose.

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Se gli editori sono troppi, l’autore ci perde o ci guadagna?

di Cristiano Abbadessa

Primo atto. Giovedì scorso, di mattina, rivedo una vecchia amica, con cui ero tornato in contatto un po’ più di un anno fa perché il marito intendeva sottoporci un suo libro. Non gli avevamo proposto un contratto, un po’ perché lo scritto era davvero agli estremi confini della nostra linea editoriale, un po’ perché si trattava di un’opera monumentale, di quelle che richiedono uno sforzo redazionale notevole, una mole di lavoro impressionante e che comportano spese di produzione decisamente elevate; una di quelle opere, insomma, che un editore decide di pubblicare solo se ci crede fino in fondo, senza trascinarsi dietro dubbi di sorta. L’amica mi dice che il marito ha infine trovato un editore, e che il libro è di prossima uscita. Ne sono lieto e glielo dico, confermandole la natura dei nostri dubbi. Ma, siccome la circostanza in cui ci siamo ritrovati è dolorosa, il discorso cade e non ci penso su più di tanto.
Secondo atto. Sempre giovedì, ma nel tardo pomeriggio, partecipo alla presentazione milanese di Diecipercento e la Gran Signora dei tonti, della nostra Antonella Di Martino. Ambiente informale, molti dei presenti ormai si conoscono, la presentazione diventa occasione di una chiacchierata ad ampio respiro, in cui vengo coinvolto. Dopo aver spiegato i nostri criteri di scelta, mi viene chiesto se ci è capitato di pentirci di una bocciatura, di vedere un’opera da noi scartata avere successo dopo la pubblicazione con altro editore. Rispondo di getto che non mi risulta che titoli da noi scartati siano diventati dei bestseller da decine di migliaia di copie o dei casi editoriali; ma aggiungo subito che bisognerebbe però chiedere i dati di vendita a tanti piccoli editori, perché in effetti molti autori passati al nostro vaglio hanno poi pubblicato con altre case editrici: e sapere se hanno venduto nell’ordine delle migliaia di copie, o delle centinaia, o delle decine, fa una bella differenza.
Nei giorni a seguire torno a riflettere su una realtà cui avevo già accennato in uno dei miei primi interventi, ma senza approfondirla a dovere. Se prendo in mano l’elenco degli autori e delle opere cui abbiamo dedicato una minima attenzione, chiedendo il manoscritto e discutendo tra noi l’opportunità di proporre un contratto, mi rendo conto che moltissimi hanno poi pubblicato, nel giro di breve tempo, con altri editori. In alcuni casi siamo stati battuti sul tempo, altre volte abbiamo scartato l’opera perché non ci convinceva fino in fondo (magari più per temi e punto di vista che per qualità), ma riconoscendole una sostanziale dignità letteraria. Addirittura abbiamo visto pubblicare opere da noi scartate senza indugio, per totale incompatibilità temetica con la linea editoriale, nelle quali però avevamo intravisto il germe di uno stile non disprezzabile.
Insomma, se traccio un bilancio, vedo che quasi tutte le opere ottime, buone o discrete passate per la nostra redazione hanno infine trovato un editore. Ovviamente ciascun editore segue i propri parametri di scelta: c’è quello che cerca una qualità letteraria elevata e quello che si accontenta di uno scritto gradevole e leggibile; c’è chi insegue temi e generi alla moda e chi persegue invece una propria precisa linea editoriale; c’è chi cerca un prodotto già “maturo” nello stile e persino nella redazione e chi guarda soprattutto alle idee e ai contenuti, riservandosi di migliorare con l’autore la fluidità della narrazione; c’è chi vuole autori in grado di autopromuoversi o spendibili come “personaggi” e chi procede seguendo i propri canali distributivi, magari limitati ma collaudati e sicuri. Alla fine, in ogni caso, è piuttosto facile che un’opera di buon livello trovi il suo sbocco verso il mare magno del mercato.
Mi viene in mente che nel mondo editoriale sento spesso ripetere una frase fatta: ci sono ormai più scrittori che lettori. Frase pronunciata di solito dagli editori, in parte per lamentarsi della mole di proposte ricevute, ma soprattutto per spiegare che è più facile produrre libri che venderli. Visto che, però, tutto quel che è pubblicabile viene in effetti pubblicato (e magari non venduto), non sarà anche vero che ci sono più editori che scrittori?
Sono ovviamente due paradossi, ma neppure troppo. I lettori sono più degli scrittori, ma tutti i libri scritti e pubblicati superano di gran lunga la capacità di “consumo” dell’universo dei lettori. Allo stesso modo, ci sono più scrittori che editori, ma per costruire i propri cataloghi gli editori, nel loro insieme, devono davvero raschiare il barile della produzione letteraria degna di questo nome.
Se ripenso alla nostra breve storia, mi accorgo di quanto sia cambiato nel giro di soli due anni. Siamo partiti da una situazione in cui molti autori validi andavano ancora proponendo buoni libri scritti ormai da qualche anno, ma rifiutati dagli editori; l’editoria a pagamento era fenomeno relativamente nuovo, che appariva una soluzione plausibile anche ad autori con legittime aspirazioni, di fronte al silenzio degli editori “puri”; nel limbo dell’autopubblicazione (che ancora non poteva contare sulla versione ebook) giacevano dimenticate ottime opere, in attesa di essere scoperte e ripescate (cosa che abbiamo fatto). Oggi riceviamo solo proposte fresche di composizione, gli editori a pagamento sono percepiti come l’ultima spiaggia dei falliti che non si rassegnano, l’autopubblicazione è un’alternativa consapevole e non un deposito di ambizioni frustrate. Se prima l’offerta degli autori era largamente superiore alla domanda degli editori (da cui la nascita dell’editoria a pagamento, come ovvia risposta a un vasto mercato di aspiranti scrittori), oggi il contratto di edizione diventa il paritario punto di incontro di due desideri: la voglia degli scrittori di vedere pubblicata la propria opera e la necessità degli editori di dotarsi di un catalogo sufficientemente ampio.
Come editore, questo riequilibrio tra domanda e offerta, e perciò nei rapporti di forza (anche contrattuali) dovrebbe preoccuparmi. In realtà credo che la mutazione in atto porterà a un cambiamento nell’interpretazione dei ruoli, che uscirà dagli schemi tradizionali e offrirà nuove possibilità tanto agli autori quanto agli editori, purché entrambe le categorie sappiano cogliere i segnali di mutamento e le nuove opportunità. Nel frattempo, non posso fare a meno di registrare le immediate conseguenze, che credo abbiano a che fare con quanto scrivevo la scorsa settimana a proposito del tracollo qualitativo delle proposte ricevute nel nostro secondo anno. (Oppure, può essere che il livello delle proposte sia calato perché inizialmente molti buoni autori avevano guardato al nuovo editore sperando che potesse diventare un attore di medio calibro e non uno dei tanti piccoli editori specializzati. Il che non cambia la sostanza del problema, confermando semmai che i piccoli editori sono troppi e, in genere, non soddisfano le aspettative degli autori).
Dopo tanto riflettere, mi sorgono alcune domande, che volentieri propongo per un’auspicata discussione collettiva.
In primo luogo: anche gli autori hanno la mia stessa sensazione che gli editori sul mercato siano tanti e forse troppi? E, in caso affermativo, come si pongono di fronte a questa realtà: affinando i criteri di scelta o ipotizzando percorsi alternativi?
Seconda questione. Fino a poco tempo fa, riuscire a suscitare l’interesse di un editore significava veder valutata in modo positivo la propria opera: di fronte alla sovrabbondanza dell’offerta autoriale, il riscontro del giudizio dell’editore era un certificato di qualità, a prescindere dalla conclusione di un accordo. Non hanno anche gli autori la sensazione che, ora, la presenza di molti (troppi) editori finisca per portare sul mercato anche opere appena dignitose, facendo venire meno quell’opera di selezione che un tempo era un primo credibile metro di valutazione del proprio lavoro?
E infine. Se oggi è più facile pubblicare, questo significa che aumenta ulteriormente la produzione libraria, in un mercato già soffocato e in cui l’offerta supera la domanda dei lettori. Considerando che la visibilità di un piccolo editore è comunque limitata, ogni singolo titolo pubblicato vede perciò ridursi fortemente, di fronte a una concorrenza sterminata, le possibilità non dico di “sfondare”, ma anche solo di ripagarsi. Al di là della soddisfazione di “essere pubblicati”, vale davvero la pena di fare tanti sforzi per trasformare semplicemente la propria forma di invisibilità? Ovvero, vale davvero la pena di entrare nel mercato editoriale per far leggere la propria opera a parenti, amici e conoscenti?

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Se il libraio diventa critico letterario. Il ruolo degli intermediari fra autore e lettore

di Cristiano Abbadessa

Negli ultimi mesi, complici la latitanza o l’inefficienza di buona parte dei nostri distributori, abbiamo avuto modo e necessità di stringere rapporti diretti e più stretti con alcuni librai. Talvolta il rapporto è nato dall’interesse del libraio stesso, altre volte siamo stati noi a cercare la disponibilità di qualche punto vendita indipendente che ci sembrava interessante. In questo secondo caso, può capitare che il libraio risponda o che neppure si degni. Se risponde, può succedere che ordini direttamente qualche copia di alcuni titoli, andando a fiuto, a volte con un certo entusiasmo per la nuova proposta editoriale e a volte dando il senso di un fastidio che fa prevedere la grama sorte di quelle copie che ristagneranno per qualche mese su uno scaffale periferico; oppure succede che dia risposta altrettanto immediata ma opposta, declinando l’offerta e spiegando magari che non desidera rapporti con singoli editori o con piccoli editori. Infine, può anche capitare che il libraio chieda qualche titolo per leggerlo, prima di decidere se ordinare delle copie da esporre al pubblico; dopo averle lette, ci manifesta il suo interesse o il suo disinteresse, e la conseguente decisione di ordinare o meno.
È ovvio che una manifestazione di interesse fa molto piacere all’editore, così come una “bocciatura” demoralizza. Debbo tuttavia preliminarmente dire che, poiché ci lamentiamo spesso della curiosa filiera dell’editoria in cui di solito i venditori nulla sanno del prodotto, la mia istintiva simpatia e il mio ringraziamento vanno comunque a questi librai che si sobbarcano la fatica di scegliere leggendo, e che, indipendentemente dal verdetto, li sento più affini rispetto a quelli che decidono solo in base alle loro strategie di mercato e di posizionamento. Per questo motivo, di solito, non condivido le forme di risentimento che alcuni tra noi manifestano quando un libraio, come per fortuna raramente capita, rifiuta i nostri titoli dopo averne letto qualcuno; mi consolo con la maggioranza che, invece, esprime un giudizio positivo, ringrazio comunque e vado avanti.
Tuttavia, l’altro giorno sono rimasto un po’ sconcertato di fronte al garbato rifiuto di un libraio. A lasciarmi perplesso, infatti, in questa circostanza sono state le motivazioni, che mi hanno fatto riflettere. Perchè il nostro, seppure in forma molto sintetica, si è espresso nei termini propri del critico letterario, soppesando pregi e difetti delle due opere che gli avevamo inviato in visione (fra l’altro, due di quelle con le migliori recensioni e le maggiori vendite); ma, e qui sta il punto, lo ha fatto riconducendo il tutto a un giudizio estremamente personale, fondato infine su quel che gli piaceva e non gli piaceva in base al suo gusto e al suo canone letterario (evidentemente piuttosto rigido, fra l’altro, essendo le due opere in questione assai diverse tra loro per stile).
Ora, io mi aspetterei da un libraio un criterio di scelta un poco diverso. Restando valido quanto detto sopra, e quindi apprezzando il fatto che non vengano ordinati dei titoli tanto per farlo e lasciarli a impolverarsi senza essere in grado di consigliarli a nessuno, riterrei però che un librario dovrebbe capire se un’opera è buona nel suo genere, e quindi consigliabile a chi quel genere e quello stile li apprezza; il fatto che a lui personalmente quel genere non piaccia, dovrebbe essere fattore del tutto secondario. Anche nell’interesse del libraio stesso, voglio dire, che altrimenti rischia di ridursi a vendere una manciata di titoli che sposano esattamente il suo gusto.
Una scelta basata sul solo criterio del mi piace, non mi piace è riduttiva e rischiosa. Noi stessi, per dire, non scegliamo cosa pubblicare in base a un unico giudizio. Abbiamo i nostri paramentri oggettivi, certo, a cominciare dalla compatibilità con una tematica precisa (la realtà sociale). Ma quando arriviamo a chiedere un manoscritto, lo sottoponiamo a diverse letture, di persone che non hanno gli stessi gusti e le stesse inclinazioni di genere e stile. E, per norma che ci siamo dati, pubblichiamo opere che qualcuno tra noi ha ritenuto “ottime”, anche se a qualcun altro sono piaciute pochino, mentre evitiamo di pubblicare quelle che, anche unanimemente, sono giudicate piacevoli, decorose e nulla più; perché le prime hanno le qualità per farsi amare almeno da una fetta di pubblico, mentre le seconde sono compitini sufficienti che non colpiscono la fantasia di nessuno. Poi in redazione si può lavorare a valorizzare pregi e smussare difetti, ma l’opera grezza deve già possedere un suo fascino preciso.
Ho voluto brevemente spiegare come procediamo nella scelta dei titoli perché ritengo che, con ruoli diversi, editore, recensore e libraio siano infine degli intermediari tra la creazione dell’autore e il gusto, mai sindacabile, dei diversi lettori. Io, da direttore editoriale, non necessariamente pubblico opere che devono piacere a me in quanto lettore; ma devo saperne riconoscere le potenzialità (se esistono) e devo fidarmi del giudizio di chi ha maggiore dimestichezza con quel genere e quello stile, decidendo insieme se l’opera è in grado di piacere al suo pubblico. Lo stesso, a maggior ragione e con la predisposizione a presentare un’offerta più ampia (se non si tratta una libreria di genere), dovrebbe fare il libraio; che ha il compito, non certo facile, di entrare in sintonia con opere che personalmente non gli dicono nulla, ma che potrebbero essere eccellenti per molti dei suoi clienti lettori. I quali, a loro volta, chiedono di essere indirizzati, dopo aver espresso le prorie propensioni, verso titoli che possano essere di loro gusto, e non di gusto del libraio.
Ruolo difficile quello del libraio consigliere, certo diverso da quello dell’editore, seppure con alcuni punti di contatto. E certamente diverso da quello del recensore, sulla cui funzione di intermediario tornerò la prossima volta.

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Libreria Kmzero a Milano. Qualche considerazione da piccoli editori indipendenti

di Cristiano Abbadessa

Da qualche settimana è uno degli argomenti più gettonati, con relativo contorno di polemiche. La notizia è che a marzo aprirà a Milano, in zona semicentrale, la libreria Kmzero, riservata ai piccoli editori. Complice una buona campagna di comunicazione, l’iniziativa si è guadagnata visibilità fin sulle pagine nazionali di Repubblica, dove peraltro si è dato conto delle numerose perplessità che circondano l’iniziativa. Ma già da qualche settimana se ne sta parlando molto sul web, in particolare su finzionimagazine, dove si è sviluppato un dibattito ampio e quasi esaustivo, utile da leggere e al quale rimando per chi volesse abbracciare l’intera complessità della questione e i vari punti di vista (vi abbiamo partecipato anche noi, seppure in forma interlocutoria).
Qui, senza la pretesa di toccare tutti gli argomenti, vorrei esprimere la posizione di Autodafé, le nostre considerazioni principali e le nostre scelte conseguenti. Per farlo, devo sforzarmi anzitutto di sorvolare sul cattivo primo impatto di una comunicazione furbetta, che ricicla slogan propri del consumo ecosostenibile senza che essi corrispondano in alcun modo al senso della proposta. Perché Libreria Kmzero vorrebbe dire, nello spirito di questa definizione, proporre al lettore milanese libri di piccoli editori milanesi privi di distibuzione nazionale; cosa che non è, e che peraltro non può essere perché sarebbe poco sensata. E parlare di slowbookstore serve solo a fare il verso a slowfood, ma non corrisponde davvero a nulla di concreto e spiegabile, né di alternativo a un inesistente fastbookstore.
Vengo dunque ai tre aspetti critici, e d’altra parte essenziali, intorno a cui si è concentrato il dibattito sul web: gli 800 euro annui per metro lineare richiesti agli editori per poter essere presenti sugli scaffali della libreria con i propri titoli; il 50% trattenuto dalla libreria sull’incasso delle vendite; la mancanza, in ingresso, di un criterio selettivo di qualità, per cui la libreria dei piccoli editori indipendenti rischia di trasformarsi in libreria dei piccoli editori abbienti.
Sorvolo su quest’ultimo punto, perché se Kmzero sia riservata agli abbienti lo vedremo valutando i primi due aspetti, mentre l’idea di una selezione per qualità ci condurrebbe in un campo troppo ampio e minato. Credo poi che sarebbe comunque prematuro e ingiusto stabilire a priori che la libreria non abbia, o non voglia darsi, altre forme per promuovere e incoraggiare gli editori di qualità, selezionando tra i presenti in base a un criterio non meramente economico (chi più paga più ha diritto).
Più semplice ragionare sui costi. Gli 800 euro annui (più Iva) sono troppi, come sostengono molti? No, in assoluto. Sì per una sola libreria, nuova e senza alcuna garanzia. Come ha sottolineato qualche editore intervenuto nel dibattto, vi è il concreto rischio che questa formula “pagare per essere esposti” diventi prassi; significa che se un piccolo editore vuole essere presente in 15-20 librerie indipendenti sul territorio nazionale, che è l’obiettivo minimo di un’autodistribuzione, deve sborsare 15-20 mila euro ogni anno, che è cifra fuori dalla portata di tutti o quasi (e, peraltro, è una cifra con cui società di promozione ti fanno arrivare, attraverso i grandi distributori nazionali, nelle maggiori librerie di catena, con la stessa percentuale di sconto praticata al distributore).
La stessa debolezza, appunto, presiede ai ragionamenti sullo sconto che l’editore deve praticare alla libreria. Il 50% è percentuale da distributore; un distributore al netto della promozione, ma comunque pur sempre un soggetto che tiene magazzino, movimenta le merci su vari punti vendita, consente una semplificazione della gestione contabile. Per una sola libreria, si tratta di una percentuale del tutto fuori misura.
I promotori dell’iniziativa, e proprietari della libreria, hanno risposto ad alcune delle critiche. Gli 800 euro, hanno spiegato, andrebbero intesi come una tantum (ma il contratto non lo dice) e come compartecipazione al rischio; però, allora, la proposta avrebbe dovuto essere formulata in maniera chiara e diversa, così come ovviamente diversa avrebbe dovuto essere la redistribuzione degli utili, a fronte di una compartecipazione al rischio d’impresa. Quindi hanno aggiunto che si prevede, prossimamente, l’apertura di altre librerie analoghe in alcune delle principali città italiane, peraltro senza precisare in che modo verrebbero formalizzati gli accordi con gli editori che già hanno pagato la partecipazione alla prima fase del progetto; ma l’ipotesi di apertura di altri punti vendita, senza condizioni chiare, appare comunque vaga e tardiva, e mi viene semplicemente da rispondere “prima vedere cammello”.
La sensazione è che in tutta l’operazione non ci sia alcuna progettualità di ampio respiro, ma solo il tentativo (anche ragionevole, dal puro punto di vista imprenditoriale) di monetizzare a proprio vantaggio il bisogno di visibilità dei piccoli editori. Mentre l’apertura di una libreria con le caratteristiche dichiarate sarebbe stata un’ottima occasione per provare qualcosa di diverso, costruire una rete di librerie indipendenti che si riconoscessero in un marchio e in un progetto (magari coinvolgendo in altre città librerie già esistenti, senza bisogno di nuovi investimenti), per proporre agli editori interessati una nuova rete commerciale. Dentro un’operazione di questo tipo, avrebbe anche avuto un senso pagare degli spazi espositivi (certo non 800 euro a ciascuna delle dieci o venti librerie coinvolte, ma un migliaio di euro per tutte o per una presenza modulare ci potevano stare benissmo) e lasciare un 50% degli incassi a una piccola rete distributiva, seppure circoscritta, che si occupasse della gestione dei titoli in tutti i punti vendita associati, con relativa circolazione delle copie.
Al di là delle seduzioni della comunicazione e della sbandierata novità della vetrina esclusiva, ci pare in fin dei conti che “l’idea innovativa” sia stata largamente sovrastimata ed enfatizzata oltre i contenuti. Senza bocciare a priori, senza attribuire cattive intenzioni e concedendo ogni beneficio del dubbio, la proposta, semplicemente, non ci interessa. Perché è davvero inutile uno sforzo economico tanto ingente per essere presenti in un solo punto vendita, e perché rischia di costituire un pessimo esempio cui altri librai indipendenti potrebbero essere tentati di uniformarsi, sempre perseguendo ognuno la logica del proprio particulare.
Seguiremo l’avventura di Kmzero, anche con la speranza che evolva invece in direzioni più interessanti. Ma il primo passo non ci sembra mosso nella direzione giusta. E continuiamo a pensare che le alternative “di sistema”, anche piccole, dobbiamo costruirle noi, editori e librai già esistenti e già presenti sul mercato, nella logica dell’unirsi per fare forza.

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Tutto e subito. Uno slogan poco adatto al piccolo editore (e ai suoi autori)

 di Cristiano Abbadessa

Seguo con attenzione e interesse i commenti, di qualunque segno, alla nostra ridefinizione operativa, anche se finora ho limitato i miei interventi a un breve contrappunto di precisazione che mi sembrava necessario. Pensavo oggi di cominciare da lì, senza replicare o commentare punto per punto, ma cercando di trovare una chiave di lettura per rispondere principalmente a chi non ha condiviso alcune scelte. Poi, però, su Repubblica di ieri ho letto la rubrica di Loredana Lipperini e mi è sembrato lo spunto giusto da cui ripartire; per arrivare, in fondo, a esprimere gli stessi concetti elaborati attraverso la lettura dei vostri commenti.
La rubrica della Lipperini ci racconta un caso di successo di autopubblicazione; la storia la potete leggere da soli, e non vi sfuggirà che, attorno alla cruda cronaca del fatto, vi è a premessa lo slogan “il self-publishing ci salverà” e a conclusione la frase “come si vede, la ribalta è presto ottenuta”. Apertura e chiusura che sembrano messe apposta per vellicare facili entusiasmi. Eppure, dalla lettura del breve brano si può evincere che questa storia di successo ha alcune caratteristiche peculiari e non ripetibili: si svolge negli Usa, dove il mercato delle vendite online e degli e-book ha uno sviluppo neppure comparabile a quello italiano (e la vendita su internet è condizione indispensabile per un self-publisher, il quale non può sostenere la gestione amministrativa e operativa dei rapporti con singole librerie); l’autrice lavora come editor in una rivista, quindi si suppone che, grazie al ruolo e al potere, abbia sottomano dei redattori (magari subalterni) da utilizzare per la lucidatura di un’opera grezza, a poca o nulla spesa; l’autrice aveva già scritto sei romanzi (o sette: questo non si capisce bene), uno dei quali di enorme successo, ed era perciò già più che nota al grande pubblico e fornita di un nutrito gruppo di estimatori; grazie al suo ruolo e alla sua notorietà, la notizia che Brittany Geragotelis (l’autrice) si autopubblicava ha avuto subito enorme risonanza sulla stampa, non solo americana, e i lettori ne sono stati automaticamente resi partecipi; alla Geragotelis, grazie al lavoro e alla fama, non mancano neppure i soldi, tanto da poter lanciare la sua opera autopubblicata attraverso un party a Manhattan. Come si vede, condizioni che non sono precisamente comuni a tutti i mortali desiderosi di pubblicare un’opera. Eppure, si spende la storia per contribuire a seminare l’illusione che il successo (in autopubblicazione o no, in fondo, poco importa) sia a portata di mano e dietro l’angolo, a patto di avere un pizzico di coraggio e un po’ di inventiva.
Trovo che il messaggio veicolato si riallacci perfettamente alla frase che più mi aveva colpito, tra quelle di chi esprimeva contrarietà rispetto alle nostre scelte. Una frase di Francesco alias Mac Tardinoh Frank, il quale, al netto dei toni e di varie inesattezze, ci dice: “Se lei ha scelto il mestiere dell’editore deve fare le cose con umiltà ed aspettare il colpo di fortuna, da parte di uno scrittore esordiente, di un romanzo buono che le faccia fare tanti soldi!”. In apparenza, una frase che molti potrebbero liquidare aggrappandosi all’ossimoro concettuale tra l’umile e serio esercizio di un mestiere e l’attesa del colpo di fortuna come unica forma possibile di retribuzione del lavoro. Eppure, credo che, se si ha l’onestà di grattare oltre la crosta, questa frase ci racconta una grande verità: sull’Italia di oggi e, di conseguenza, anche sul mondo editoriale.
Suppongo sia cominciato tutto nel corso degli anni Ottanta, quando il mondo stava preparando cambiamenti epocali, i rapporti di forza politici ed economici stavano ridisegnandosi nel segno dell’imminente globalizzazione, e noi, anziché affrontare seriamente la sfida dei nuovi diritti e delle nuove opportunità in una società in profonda trasformazione ci andavamo aggrappando all’effimero godimento e al gioco in Borsa. Deve essere partito da lì quel modo di essere tutto neoitaliano per cui il successo va ottenuto in fretta, senza fatica e senza applicazione, attraverso l’eterna raccomandazione (che perpetua i rapporti di potere) o l’insperata botta di culo (che non modifica i valori e i meriti). Cosa significhi, lo abbiamo visto in ogni campo: in una politica dove si sono evocati uomini forti, unti del signore, tecnocrati salvaItalia cui affidarsi senza riserve per risolvere in un amen i guasti generati in decenni, affascinati ora dal nuovismo ora dalla protesta becera e demagogica, ma sempre senza una visione d’insieme e un’analisi di fase; nel regalare sontuosi quarti d’ora di celebrità a fenomeni mediatici privi di spessore (nelle arti, nel cinema, ovviamente in tv); nell’aggrapparsi al nome famoso da spendere per mascherare l’inesistenza di un progetto (nella cultura, nello sport); nell’adattarsi a percorrere qualsiasi scorciatoia e nell’affidare il proprio futuro all’azzardo (nella vita quotidiana). Penso che ciascuno, secondo inclinazioni e competenze, possa trovare gli esempi calzanti. E, fra l’altro, agendo in questo modo abbiamo conservato il potere reale nelle mani di una gerontocrazia che giganteggia, se non altro, sull’orgogliosa ignoranza di generazioni cresciute nell’adorazione dell’effimero e dell’apparente; per cui si assiste al continuo alternarsi tra i miti del momento, capaci di cavalcare l’onda del consenso popolare, e il riemergere degli eterni fossili riportati alla luce dal fluire della risacca.
L’ho fatta lunga, e poco mi resta per dire come questa frettolosa attesa del successo e della “svolta” vengano a declinarsi nel mondo dell’editoria e quali riflessi abbiano sul lavoro di un piccolo editore. Va bene così, e mi limiterò ad accennare qualche aspetto, che andrà debitamente ripreso con più calma nelle prossime settimane.
Ma non posso fare a meno di accennare, per esempio, ai troppi autori che si deprimono se nel giro di un paio di mesi il loro romanzo non è sbocciato alla fama, vittime del luogo comune che “un libro ha due-tre mesi di vita”. Una sciocchezza assoluta, che riguarda semmai solo quelle opere minori stampate da grandi e medio-grandi editori per la sola funzione di merce di scambio con distributori e librai, messe nel circuito editoriale solo per sostituire la penultima produzione con l’ultima senza che nessuno debba sborsare denaro reale. Ma si tratta, appunto, di una realtà che non riguarda certo l’autore che ha pubblicato con un piccolo editore, che deve avere invece la pazienza e la perseveranza di veder crescere nel tempo la propria creazione.
Così come non posso ricordare che nessun piccolo editore arriva a pioggia coi suoi titoli nelle grandi librerie delle catene, se non dopo una lunga anticamera. L’alternativa, fatto salvo il solito caso della amichevole spinta di qualche personaggio importante (e non è il nostro caso), è quello spesso evocato investimento in marketing, del quale sarebbe bene però, una volta per tutte, definire i costi: perché un investimento pubblicitatio vero, di quelli che muovono l’attenzione dei lettori e dei librai, si misura nelle decine di migliaia di euro. Altrimenti bisogna ancora avere la pazienza di costruire un flusso comunicativo che scava la roccia con la lentezza della goccia insistente, senza sognare scorciatoie facili e successi improvvisi.
Che poi, fra l’altro, provate ad andare da un distributore importante o da un operatore della promozione editoriale e chiedetegli cosa pensa del “colpo di fortuna di un romanzo buono” pubblicato da un piccolo editore. Vi diranno che, nel novanta per cento dei casi, se un piccolo editore vende in media cinquecento copie a titolo e ne sforna uno da ventimila copie, quel successo è destinato a generare una spirale che porta al fallimento nel giro di un anno. Altro che colpo di fortuna!

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