Siamo piccoli editori indipendenti e abbiamo partecipato al primo Salone dell’editoria che si è svolto dal 6 all’8 giugno a Milano, nell’ambito del Festival Letteratura Milano, giunto invece alla sua terza edizione.
Abbiamo aderito con grande interesse a un’iniziativa che ci sembra importante e meritoria, perché si propone di colmare gli storici vuoti che fanno di Milano (la capitale dell’editoria, nell’immaginario collettivo) una delle città meno attente ai piccoli editori indipendenti e alle forme di produzione culturale dal basso. Conoscevamo il festival, nato nel 2012, perché si è ormai conquistato un suo spazio e una sua credibilità, almeno fra noi addetti ai lavori e presso una fetta di pubblico attenta e coinvolta. Sapevamo già, proprio guardando all’esperienza del Festival Letteratura, che le iniziative di questo tipo hanno saputo da un lato attrarre e trovare apprezzamento attraverso canali e ambiti “social” (che non significa soltanto sul web, dove pure il seguito è molto ampio, ma anche nel passaparola), ma hanno per contro trovato modesto e faticoso riscontro presso le istituzioni e i media tradizionali.
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Lettera aperta sul Salone della piccola Editoria di Milano
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Quando i narratori del presente anticipano il risultato elettorale
di Cristiano Abbadessa
Le giornate del festival Tra le Righe a Cinisello si sono intrecciate e sovrapposte a quelle elettorali. Molto impegnati nel nostro lavoro, abbiamo finito per risvegliarci dalla faticosa kermesse fieristica giusto in tempo per votare la mattina del lunedì e restare, nel pomeriggio, a rimirare lo sbigottimento dei politici e dei commentatori per gli esiti delle elezioni. Alcuni risultati, hanno detto, contraddicevano i sondaggi; altri andavano ben al di là di quelle che erano le previsioni. Posso dire che, per quanto mi sia avvicinato al voto distratto da mille urgenti incombenze, non sono stato affatto stupito, invece, di quelle tendenze che i commentatori ritenevano imprevedibili almeno nelle dimensioni. Non perché io sia un raffinato politologo (anzi, storicamente, quando mi sono dilettato in qualche previsione elettorale con amici, di solito ci ho preso pochino), ma perché questa volta avevo sottomano un termometro del comune sentire e delle pulsioni di massa che rappresentava (e rappresenta, e rappresnterà) un utilissimo strumento per capire la realtà e prevedere come si sarebbe tradotta in voti. Mi riferisco ai racconti ricevuti e pubblicati per la prima tornata del nostro progetto Narrativo Presente.
Il tema, lo sapete, era “La sovranità appartiene al popolo”; e il richiamo alle imminenti elezioni era presente, neppure sotto traccia. Come spunti, avevamo proposto due frasi: una del presidente Napolitano contro i populismi, l’altra di padre Zanotelli contro il potere finanziario globale; due visioni in qualche modo contrapposte, certamente entrambe contenenti elementi di verità utili a sviluppare una riflessione da riprendere nella creazione narrativa. Come nella filosofia del progetto, le frasi potevano essere lette da molti punti di vista, e ci si poteva ispirare all’una o all’altra o a entrambe, condividendole o meno.
Fra gli autori che hanno partecipato, però, soltanto uno in forma abbastanza esplicita e uno in maniera molto più velata hanno fatto riferimento alla fallibilità del popolo, che può essere manipolato, ricattato, superficiale, soggetto a comportamenti irrazionali, oppure distante dalla cosa pubblica e ripiegato sul proprio particolare. Tutti gli altri racconti hanno invece, con gradazioni e forme giustamente diverse e personali, messo in risalto la figura del popolo come entità “buona”, oppressa, talora apertamente vessata o tenuta in una voluta ignoranza e soggezione; mentre, dall’altra parte, si stagliava la figura di un potere lontano, estraneo, dominante, mai espresso dal popolo stesso e impegnato semmai, attraverso i suoi fedeli servitori (figura ricorrente), a mantenere ben stretto il giogo. Una rappresentazione che ciascun autore ha modellato in forme proprie, più o meno allegoriche, ma che è possibile ritrovare quasi in tutte le opere.
È stato, come dicevo prima, un buon termometro per misurare la temperatura sociale. Anche perché conosco bene alcuni degli autori (non tutti, è chiaro), e so che questa visione non discende necessariamente dalla loro formazione politica o dal personale orientamento. Da narratori del presente, però, hanno fotografato (e trasfigurato) un sentimento comune e diffuso, che ben rappresenta i nostri tempi. Davanti a queste creazioni letterarie ho capito, più di quanto sia riuscito ai sondaggisti con i loro numeri o ai politologi con i loro saggi, che quelle forze politiche oggetto del richiamo presidenziale, quei partiti o movimenti contro i quali era diretto il segnale di allarme del “populismo”, avrebbero ricevuto alle elezioni un premio, e non una punizione. In particolare, tanto per essere più espliciti, lì ho capito che il Movimento 5 Stelle sarebbe andato oltre il 20% e si sarebbe affermato come il più credibile interprete di quel diffuso sentimento che ritrovavo anche nei racconti dei nostri autori.
Sabato scorso, nell’ambito della manifestazione di Cinisello, abbiamo presentato il nostro Narrativo Presente in una tavola rotonda con ospiti di riguardo. È stata una bella chiacchierata, che il tempo non ha consentito di dipanare fino in fondo. Tra gli argomenti rimasti un po’ in sospeso vi era il valore di testimonianza storica che, un domani anche non vicino, avranno questi racconti per quanti, alla ricerca delle tracce della memoria, vorranno ricostruire un periodo della nostra storia rifacendosi a fonti varie, magari pescando i fatti dagli archivi dei giornali ma cercando di cogliere spirito, sentimenti e linguaggi del tempo dalle tracce della narrazione. Credo che l’insieme dei racconti scritti nel mese di gennaio 2013 per Narrativo Presente rappresenterà, in futuro, un ottimo punto di partenza per capire il voto della fine di febbraio e classificarlo come inevitabile conseguenza di un sentire diffuso, ben chiaro a chi ha guardato la realtà e tutt’altro che imprevedibile.
Direi, per gli scopi che ci siamo prefissi, che si tratta di un’ottima partenza.
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Rassegna della microeditoria a Chiari: un invito agli editori presenti
di Cristiano Abbadessa
Autodafé, in questi giorni, sta lavorando a molti progetti, in buona parte pensati e realizzati insieme al FestivalLetteratura Milano. Sono iniziative che daranno nuovo spessore alla casa editrice, connotandola fortemente per il suo ruolo sociale e per la presenza sul territorio. Alcuni progetti sono già operativi (e a breve ve ne renderò conto: non essendo aperti al pubblico lo farò in termini di consuntivo), altri sono in cantiere (un cantiere anche avanzato), altri ancora sono ormai in rampa di lancio e a breve diventeranno di dominio pubblico, in attesa di una vostra convinta adesione.
Prima di tutto questo, però, c’è la rassegna della microeditoria a Chiari, da venerdì 9 a domenica 11 novembre, che rappresenta al momento uno degli appuntamenti più importanti e significativi per una casa editrice come la nostra, in quanto, a differenza di fiere apparentemente simili, è realmente “tagliato su misura” per le nostre esigenze e possibilità.
Saremo dunque presenti a Chiari, con un nostro stand, e speriamo di incontrare lettori che hanno già avuto modo di conoscere i nostri libri e altri che siano interessati a scoprire la nostra filosofia editoriale.
La manifestazione di Chiari, però, può e deve rappresentare anche un momento di incontro fra editori che hanno sensibilità affini e che devono affrontare le medesime problematiche, a partire, come sempre, da quelle legate alla distribuzione e alla vendita dei libri, al rapporto tra editori e librai indipendenti, alle forme di promozione di marchi che non godono di ampia visibilità sui media tradizionali.
Ho detto, in apertura, delle importanti iniziative di radicamento territoriale e di portata sociale che stiamo realizzando. Scopo fondamentale di una casa editrice, però, resta la pubblicazione di titoli con annessa vendita. È la ragion d’essere di un editore ed è anche giusto, al di là dell’eventuale ritorno economico diretto o indiretto di qualche altra attività, che costituisca il principale polmone finanziario.
Ho scorso l’elenco degli editori presenti a Chiari e ne ho approfondito la conoscenza consultando i loro siti, i cataloghi, le proposte e le offerte. Ho verificato, come dicevo, che l’insieme forma un universo piuttosto omogeneo per dimensioni, obiettivi, potenzialità e limiti.
È per questo che mi rivolgo direttamente ai colleghi editori che onoreranno la rassegna. Abbiamo problemi comuni, abbiamo probabilmente un’identità (o quasi) di opinioni sulle possibili soluzioni, abbiamo ricette non incompatibili fra loro. Da solo, ciascuno di noi riesce al massimo ad arrangiarsi tra mille difficoltà, rimanendo però confinato in una dimensione che, quando va bene, è di pura sopravvivenza. Il tutto, nella maggior parte dei casi, a fronte di una produzione editoriale di qualità, che meriterebbe il libero accesso a un pubblico ben più vasto. Parliamone.
Noi saremo a Chiari soprattutto per questo. Abbiamo delle idee e vogliamo confrontarci, convinti che solo facendo rete sia possibile far crescere la presenza delle nostre case editrici, dando un senso compiuto alla nostra attività. Vi cercheremo, e vi invitiamo a venirci a trovare al nostro stand. Parliamone. E cerchiamo, senza sterili personalismi o immotivate gelosie, di costruire una strategia comune e di farle prendere corpo.
Vi aspettiamo. Aspettateci.
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Il festival della letteratura per guardare al futuro
di Cristiano Abbadessa
Il primo festival della letteratura a Milano si è concluso ieri sera, con la festa-evento che ha coinvolto organizzatori, promotori e protagonisti. Più che un bilancio dettagliato (per il quale ci sarà bisogno di cifre precise e analisi ponderate), credo si imponga nell’immediatezza la necessità di fermare alcune impressioni e di provare a fare qualche considerazione rivolta al futuro.
Partirei dalla partecipazione di pubblico agli eventi che, a mio avviso, è stata più che soddisfacente. Presenze buone, talora ottime, qualche raro flop con motivazioni precise che non è difficile individuare. Se facciamo una proiezione delle presenze medie e vi aggiungiamo i “pienoni” di qualche serata speciale, vengono fuori numeri non da urlo ma siginificativi. Come ho già detto, il contenitore ha avuto un effetto di moltiplicatore e, a differenza di quanto avviene per le normali presentazioni, ha giocato un ruolo importante la mobilitazione di responsabili e gestori dei luoghi che hanno ospitato gli eventi. A questa constatazione, già evidente dopo i primi due giorni della manifestazione, ne aggiungo un’altra maturata partecipando a eventi (non di Autodafé) del fine settimana: oltre a richiamare un pubblico consapevole e motivato, il festival ha saputo anche intercettare la favorevole attenzione dei cittadini, attraverso quelle iniziative che si sono svolte per strada, o in luoghi atipici, portando letteratura e arte tra la gente.
Va detto (e non per amore di polemica, ma per regolarsi in futuro), che la buona accoglienza “popolare” è tanto più significativa se si tiene presente che, dall’alto, sono stati messi in atto diversi tentativi di oscuramento o svilimento della rassegna. I grandi e medio-grandi editori hanno preso le distanze, talora in forma esplicita (come l’immancabile tromboncino che ha voluto far sapere che questo “non poteva chiamarsi festival della letteratura” perché mancavano i grandi nomi; il che imporrebbe una lunga divagazione su chi può arrogarsi il diritto di stabilire cosa sia un festival e cosa sia letteratura), talora in più strisciante boicottaggio (a danno persino degli autori che, a titolo personale, avevano aderito). Anche i grandi media hanno snobbato il festival, dapprima derubricandolo a curiosità un po’ utopista, poi seguendo i canali di una disinformazione che ha toccato qualche vetta davvero comica (ci sarà modo di tornare sull’argomento). Certo, l’organizzazione e i promotori (cioè noi) potrebbero avere qualcosa da rimproverarsi e da rivedere nelle forme della comunicazione; ma la sensazione, anche prevedibile, è che l’idea di un festival con questa genesi e queste modalità contrasti inevitabilmente con interessi consolidati e che sia perciò destinato, anche in futuro, a perseguire strade alternative per meglio pubblicizzarsi.
Altro indubbio successo è stata la formula di incontro e contaminazione tra le varie forme artistiche. Hanno avuto buon seguito, e a volte una partecipazione viva e interessata, anche dibattiti e presentazioni in forma abbastanza tradizionale; ma la vera novità, sempre confortata da presenze numerose e gradimento esplicito, è stata la proposta di incontri in cui letture e dibattiti, musica e danza, pittura e teatro si mescolavano tra loro (non tutti insieme, ovviamente) ponendo al centro un tema, una suggestione e un’idea. Eventi non facili da creare, che devono calibrare bene la scelta tra le varie forme artistiche da rappresentare, devono snodarsi seguendo un percorso preciso e non casuale, devono trovare argomenti e fascinazioni in grado poi di coinvolgere il pubblico e portarlo a una riflessione che vada oltre il godimento estetico.
Direi che questa è stata un’importante scommessa vinta, anche se presenta un rovescio della medaglia. La contaminazione ha funzionato benissimo come forma di intrattenimento e di proposizione “spettacolare” della letteratura. Però, va detto, ha funzionato poco o pochissimo per quanto riguarda la promozione specifica dei libri, con vendite ben al di sotto di quanto in media avviene nelle presentazioni. Né le cose mi pare siano andate meglio, in questo senso, per gli altri artisti: non ho notizie di soddisfacenti vendite di cd da parte dei musicisti e dei cantautori o di interessamenti per le opere pittoriche. Questo va sottolineato, perché un festival che è stato realizzato senza alcun contributo e basandosi sul solo investimento in lavoro dei promotori e dei protagonisti avrebbe avuto bisogno anche di un piccolo conforto economico, di qualche tangibile segnale di interesse, disponibilità e riconoscenza.
Questo non vuol naturalmente dire che debba essere ripensata la filosofia del festival a scopo mercantilistico: le contaminazioni, le performance, la pluralità di voci e di forme, l’apertura “democratica” a tutti coloro che avevano qualcosa da dire sono e devono restare le caratteristiche vincenti. E su questa traccia credo che, per quanto riguarda il festival, si possa tra breve, diciamo dopo l’estate, cominciare a lavorare concretamente per l’edizione 2013.
Credo però anche che il festival sia stato un momento relazionale importante. Vi è ora una rete di case editrici, autori, artisti, istituzioni pubbliche, locali e librerie; soggetti che, accomunati da interessi precisi anche molto concreti, e non solo etici o filosofici, possono e devono provare a fare il salto e a trasformare la rete in una struttura stabile che faciliti la sopravvivenza degli attori che fino a ieri, generosamente e gratuitamente, hanno animato la manifestazione. Il consolidamento di questa rete, per come la vedo, è lavoro che deve iniziare subito, oserei dire domani. Comunque, assai prima di pensare al festival 2013, perché ne costituisce l’indispensabile e vitale premessa.
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Il salone di Torino e il festival di Milano: due mondi editoriali
di Cristiano Abbadessa
Si apre oggi il Salone del Libro di Torino, la più importante e visibile tra le fiere del settore. Grandi case editrici, autori famosi, ospiti importanti, passerella di autorità, esposizione mediatica costante, pubblico numeroso anche se piuttosto variegato, talvolta solo curioso o in cerca di eventi. Noi, come sempre, non ci saremo; quantomeno non ci saremo come espositori, anche se poi ci sarà chi troverà il modo di andare a dare un’occhiata alla grande kermesse.
Noi saremo, anzi siamo, invece tra gli animatori e i promotori del festival della letteratura che andrà in scena a Milano dal 6 al 10 giugno: una novità e un esperimento, alternativo non solo nei nomi e nelle modalità alle tradizionali esposizioni fieristiche, più o meno grandi. Un grande contenitore di eventi in cui, oltre alla letteratura che farà la parte del leone, troveranno modo di esprimersi altre forme d’arte e cultura, spesso in interazione fra loro. E un tentativo di portare la cultura e i libri fra la gente, anziché limitarsi a richiamare gli interessati verso un unico e preconfezionato teatro di posa.
Appare evidente che i due eventi rappresentano con efficace sintesi due realtà completamente diverse del mondo editoriale, due mondi lontani e, fatta salva la passione per la lettura, con pochi punti in comune. A marcare la distanza non è solo la diversità della formula, che pure conta. E non sono neppure i nomi presenti, anche se Torino è prima di tutto la vetrina della grande editoria e dei colossi, mentre il festival di Milano nasce e cresce dall’idea e dall’impegno di realtà piccole e indipendenti. È anzi probabile che, proprio in ragione del diverso format e grazie a un’organizzazione dell’evento milanese che si è conquistata credibilità strada facendo, alcune case editrici di medio calibro siano presenti a entrambe le manifestazioni: a Torino per ritagliarsi uno spazio tra i grandi nomi, a Milano per testimoniare la propria appartenenza ideale e strutturale all’editoria artigianale.
Resta però la differenza di approccio, che si declina in varie forme. Per quanto riguarda la modalità organizzativa, perché al modello classico della fiera, piccola o grande che sia (c’è un organizzatore e ci sono dei partecipanti, che pagano il proprio spazio e si ritagliano il posto al sole in conseguenza della disponibilità economica), si sostituisce la formula degli eventi, in cui sono la voglia e la capacità di investire in idee e in lavoro a determinare quantità e qualità della visibilità. E poi per quanto riguarda il rapporto con il pubblico, perché, anziché esporsi in un’unica sede deputata, durante il festival gli artisti, gli scrittori e gli editori porteranno in una molteplicità di luoghi le proprie creazioni, alternando sedi istituzionali ad altre meno prevedibili, fino alla discesa nelle strade.
Nulla di naif o spontaneista, però, perché il festival avrà un proprio calendario, appuntamenti precisi, luoghi e orari; il che non toglierà la possibilità di porgere la propria offerta anche a un pubblico più vasto e di provare a catturarne l’attenzione evadendo dal recinto. E va detto che i riscontri, l’interesse mostrato da chi metterà a disposizione gli spazi per gli eventi, la passione e la creatività con cui i protagonisti stanno attrezzando performance e presentazioni, fanno prevedere una rassegna di grande impatto e in grado di animare la città nelle giornate (e nelle serate) del festival.
Sarà anche, ci contiamo, il primo passo per la creazione di una rete stabile di rapporti tra tutti quei piccoli soggetti del mondo editoriale che, nelle varie vesti, stanno costruendo il festival e che hanno l’ovvio interesse a dare un seguito all’evento, magari strutturandosi con una proposta alternativa in cui le energie di ciascuno concorrono a dare forza e visibilità (e magari un più ampio sbocco sul mercato) a quell’editoria indipendente che sconta debolezze strutturali e difficoltà di accesso.
La scommessa di chi ha ideato e promosso il festival è quella di riuscire a creare una manifestazione ampia e coinvolgente partendo dalle proprie forze, dal lavoro, dall’impegno e dalle idee, ben sapendo di non poter invece contare su quella disponibilità economica che serve per “comprarsi” gli spazi e le attenzioni. L’idea sta prendendo forma e forza, raccogliendo adesioni e interesse. Sul tram, ora che comincia a essere affollato e ha una destinazione precisa e interessante, continuano a salire viaggiatori. Noi siamo fieri di essere tra quelli che ci hanno creduto subito e che hanno dato un apporto fattivo e generoso.
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Piccoli editori a Milano: la fiera che c’è e quelle che forse
Come promesso, eccomi a tracciare un breve bilancio, del tutto soggettivo, della terza edizione di “Un libro a Milano”, fiera della piccola e media editoria indipendente svoltasi nel passato fine settimana.
Più fiera della piccola che della media editoria, per la verità, almeno quest’anno: ed è un dato che a noi, piccoli per davvero, fa piacere perché connota meglio la manifestazione e favorisce l’incontro tra soggetti affini. Sulla carta (e negli spazi), la presenza degli editori era quasi dimezzata rispetto a un anno fa; colpa della crisi, è stato detto, ma forse anche di una migliore definizione degli obiettivi del salone e di conseguenti valutazioni degli editori. Perché, andando a vedere bene, sono mancate alcune microrealtà anche abbastanza border line e sono d’altro canto quasi scomparsi quei medi editori già provvisti di notorietà, mezzi e strutture organizzative, probabilmente indirizzatisi verso eventi più pubblicizzati ed effettivamente più adatti a loro.
Diversa anche la composizione del pubblico. E qui c’entra molto la promozione dell’evento, che un anno fa era stato vistosamente pubblicizzato nella microrealtà del quartiere (con locandine su ogni vetrina di esercizio commerciale), ma del quale poco o nulla si sapeva in città e fuori. Quest’anno, con una buona comunicazione che ha sfruttato le pagine locali dei maggiori quotidiani, la fiera è uscita dal guscio di Porta Genova e si è qualificata come evento cittadino, con una minima attrazione esterna al confine milanese (anche fra gli editori presenti sono stati netta maggioranza quelli che giocavano in casa). Si è visto sfilare un pubblico più interessato e consapevole, mentre lo scorso anno, complici giornate fredde e minacciose, per gli stand erano transitati a frotte tutti gli abitanti del quartiere impegnati nella passeggiatina postprandiale, che venivano a buttare un’occhiata ma di fatto sfilavano a passo deciso fra i banchetti, senza neppure soffermarsi.
Ne è uscita una fiera più vivace, animata dai contatti tra operatori del settore, con possibilità di confronto fra editori e quanti intorno al prodotto editoriale si ingegnano a inventare nuove forme di comunicazione e promozione, dai blogger ai gestori di siti specializzati, dagli istituti di ricerca dedicati a creatori di idee e reti relazionali. Molta semina, di conseguenza, in attesa che i frutti maturino, se ben coltivati, nel prossimo futuro.
Un po’ meno esaltante il bilancio relativo al “raccolto”. Non tanto per noi, che soprattutto grazie all’apprezzata presentazione del nuovo romanzo “Viola” di Pervinca Paccini, seguita da un pubblico attento e consistente, abbiamo chiuso con un lusinghiero saldo; ma va detto che molti altri editori hanno patito l’affluenza limitata di lettori e la scarsa propensione all’acquisto, e se ne sono parecchio lamentati.
Personalmente ritengo già da tempo che le fiere, per un piccolo editore, non siano un’occasione per fare cassa (pochi comprano, e comprano poco) né un palcoscenico di visibilità (se la fiera è piccola non ci sono media importanti, se è più grande l’attenzione va tutta ai soliti noti); quindi mi sta bene che, come è avvenuto qui a Milano, siano almeno un’occasione di confronto tra operatori del settore. Rimane però il problema di portare al pubblico i propri titoli, che per l’editore è necessità vitale.
In questo senso credo vadano ben spese le energie seguendo alcune linee tracciate a Milano e attraverso altri contatti: eventi sul territorio, magari all’interno di manifestazioni radicate, capaci comunque di creare un flusso positivo tra cittadini e editori, puntando anche su una scelta intelligente e mirata della proposta letteraria. Conta il radicamento, il passaparola, la presenza di attori capaci di promuovere iniziative in modo intelligente, facendo incontrare chi ha il reciproco interesse a trovarsi e non buttando lì delle proposte tanto per animare e dare colore a manifestazioni che nulla c’entrano con l’oggetto libro.
Proprio nei giorni di “Un libro a Milano” ho sentito circolare proposte interessanti e altre balzane: a cominciare dal fantasmatico grande salone internazionale dell’editoria che qualcuno (poco più che inesistente e sconosciuto) avrebbe già lanciato e messo in calendario per il prossimo ottobre, suscitando fra l’altro una pronta reazione torinese che mi è parsa prematura e fuori luogo. Sia come sia, ai piccoli editori iniziative di questo tipo non possono interessare. Se qualcuno vuol replicare i modelli di Torino e Mantova per il gusto di fare concorrenza e per dare un nuovo palcoscenico alle solite bibliostar, faccia pure. Noi non ci saremo, e cercheremo coi nostri omologhi di costruire piccoli teatri di periferia dove mettere in scena le interessantissime opere dei nostri validissimi autori. Perché è davvero ora di ridare valore ai contenuti piuttosto che alle location.
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Avviso all’assessore Boeri: a Milano c’è una fiera della piccola editoria
di Cristiano Abbadessa
Leggo, ieri, un trafiletto nelle pagine culturali di Repubblica. Gli organizzatori della fiera “Più libri Più liberi”, in programma a Roma nel prossimo dicembre, lamentano il taglio dei contributi da parte dell’amministrazione locale e mettono in dubbio la sopravvivenza della manifestazione per il futuro. Il trafiletto si chiude con il commento dell’assessore alla cultura del comune di Milano, Stefano Boeri, che, ironizzando sulla scarsa sensibilità della giunta Alemanno, dice testualmente: «Se Roma non la vuole, potremmo prenderla noi».
Sarebbe il caso che, a questo punto, qualcuno spiegasse a Stefano Boeri che a Milano già esiste, da due anni, un salone della piccola e media editoria indipendente, che si chiama “Un libro a Milano” e che va in scena proprio nel prossimo fine settimana, da venerdì 25 a domenica 27 novembre. Ma, forse, l’assessore alla cultura dovrebbe già conoscere le iniziative fieristiche, sul tema, della città di cui è amministratore.
La storiella sarebbe anche divertente, se non portasse a qualche amara considerazione. Siamo ormai abituati a digerire le non sempre imperscrutabili logiche dei media: li abbiamo visti contribuire ad affossare Belgioioso, dare enorme spazio a un salone che neppure contatta gli editori per sapere se intendono parteciparvi (e non lo nominerò, per evitare anche la minima forma di pubblicità), ignorare manifestazioni che stanno consolidando la loro tradizione, oscurare del tutto alcune iniziative; diciamo che ci sono giornalisti che fanno onore al vecchio epiteto di pennivendoli, altri che manifestano una curiosità e un fiuto da cronisti autentici, e una mesta maggioranza che si è ridotta al rango di esecutore e passacarte (per cui la visibilità te la trovi da solo se hai il promotore giusto). Per cui, una certa imprevedibilità negli spazi concessi e negati è ormai da mettere nel conto. Ma la cosa diventa un po’ più preoccupante se la stessa imprevedibilità casuale (o, peggio, nient’affatto casuale) presiede ai comportamenti di chi fa parte di una giunta che, almeno in linea teorica, dovrebbe essere sganciata e alternativa rispetto a quell’oligarchia che domina il mercato editoriale, e magari persino attenta e bendisposta verso realtà minori che si sforzano di arricchire il panorama e l’offerta culturale.
“Un libro a Milano”, lo abbiamo già visto lo scorso anno, fatica a trovare spazio e considerazione (anche se quest’anno sembra essere riuscita a ritagliarsi una maggiore visibilità). Forse perché si tratta di un salone che davvero offre spazio ai piccoli, a differenza della kermesse romana che, a partire dai costi degli stand per proseguire con le scelte strategiche, sembra quasi proporsi come alternativa minore, ma concettualmente non dissimile, al Salone di Torino; un po’ replicando in campo editoriale quel dualismo cinematografico che il sindaco Veltroni volle suscitare tra la capitale e Venezia. E, sicuramente, non è facile trovare spazio mediatico e considerazione istituzionale nella città che è culla di tutti i maggiori gruppi editoriali, quegli stessi che soffocano volentieri nella culla ogni esperienza alternativa.
In attesa che l’assessore si svegli e mostri maggiore indipendenza o spirito d’iniziativa, sarebbe però bello che almeno gli editori interessati si dessero da fare per illustrare al meglio questa iniziativa. Perché va pure detto, onestamente, che il salone milanese, a differenza di altri, è stato troppo sbrigativamente etichettato fin dalla nascita come una sorta di mercatino prenatalizio, buono per fare un po’ di cassa e nulla più.
Potrebbe invece essere anche dell’altro, e sostituire, in una sede importante, quello che fino a pochi anni fa era l’appuntamento di Belgioioso. Intendo dire che sarebbe opportuno riscoprire l’importanza delle fiere come momento di incontro fra gli operatori del settore, occasione per il confronto e la circolazione delle idee, magari persino per l’elaborazione di qualche strategia comune e la stipula di qualche accordo, o addirittura per arrivare a “fare sistema”. Perché siamo certi che i comuni interessi, e bisogni, degli editori partecipanti sono largamente superiori alla necessità di “farsi concorrenza” l’uno a spese dell’altro.
Per cominciare, in ogni caso, sarebbe bello che tutti noi, che abbiamo scelto di essere presenti a Milano, ci attivassimo con un po’ di voglia e di fantasia, nelle relazioni personali e in quelle mediate dalla rete, per promuovere e far conoscere “Un libro a Milano”, senza restare passivamente alla finestra.
Come minimo, potrebbe arrivare qualche lettore in più. E, magari, l’assessore Boeri potrebbe venire a conoscenza dell’esistenza del salone.
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