Archivi categoria: istituzioni

La virgola in più nell’emendamento Finocchiaro

riformaSenatoOvvero: quando la Costituzione viene modificata da un dettaglio di punteggiatura

di Cristiano Abbadessa

È stato approvato poco fa il cosiddetto “emendamento Finocchiaro” all’articolo 2 della riforma costituzionale. È l’emendamento che, come spiegano le cronache politiche, ha ricomposto i dissensi all’interno del Pd, accogliendo, nelle intenzioni dichiarate, alcune indicazioni della minoranza del partito relative alla nomina o elezioni dei senatori espressi dai consigli regionali.
Continua a leggere

Lascia un commento

Archiviato in editing, governo, istituzioni

Novembre 2013: la prima (vera) edizione di Book City

di Cristiano Abbadessa

bookcityÈ iniziata ieri quella che viene contrabbandata per la seconda edizione di Book City, la rassegna milanese dedicata ai libri. In realtà, a mio modo di vedere, si tratta della prima edizione, e provo a spiegare il perché.
Quest’anno, a differenza dell’anno scorso, Book City ha un vero programma, corposo e dilagante (più di 600 eventi; ed è curioso, ma non certo sorprendente, che l’aggettivo “elefantiaco” non sia stato usato da quei giornalisti che l’avevano appiccicato al Festival Letteratura Milano di giugno, coi suoi quasi 200 appuntamenti), ma anche articolato e completo. Ci sono spazi tematici, aree dedicate, incontri diversificati: non solo, dunque, il richiamo dei grandi nomi e degli eventi di maggior risonanza mediatica, ma una distribuzione sul territorio che consente agli interessati di andare a colpo sicuro in quel luogo sapendo che, comunque, vi saranno incontri dedicati a quel tema.
Continua a leggere

2 commenti

Archiviato in indipendenti, istituzioni, piccoli editori

Book City e i giornalisti. Servitù senza memoria

di Cristiano Abbadessa

Spiace ritornare su questioni già affrontate. Spiace perché rischia di annoiare (a me un po’ annoia) e perché ci sarebbero argomenti più interessanti di cui parlare. Poiché, però, per questi ultimi non c’è fretta, il gusto per la verità e la memoria impongono di riparlare del Book City, la rassegna dei “grandi” editori che tra poco andrà in scena a Milano.
Sull’argomento, ricorderete, ho già rivolto una serie di domande all’assessore Boeri, responsabile milanese della cultura, chiedendo alcune delucidazioni (tanto per avere conferma o smentita di voci davvero sgradevoli) e domandandogli ragione di una scelta, politicamente contraddittoria, tutta a favore della grande editoria e a discapito di quella marea di soggetti più piccoli (dagli editori agli autori, dagli artisti ai lettori) che formano il vero tessuto connettivo della realtà culturale milanese. L’assessore non ha finora ritenuto di rispondere, né credo lo farà mai. Diciamo che ha fatto la sua scelta di campo, molto discutibile, e gli si chiederebbe semmai, a questo punto, di avere l’onestà intellettuale di dichiararla.
Ma questa volta a disturbarmi sono stati alcuni articoli di presentazione dell’iniziativa. E devo dire che l’atteggiamento dei giornalisti, in questa vicenda, mi pare ancor meno giustificabile di quello dell’assessore. Perché Stefano Boeri può fare le sue scelte (come quella di dare appoggio e fondi ai grandi editori, ignorando il resto del panorama culturale cittadino), rispetto alle quali dissentiamo, essendo comunque chiamato un domani a rispondere del suo operato in sede politica ed elettorale. Ma i giornalisti, almeno in linea teorica, dovrebbero rappresentare la coscienza critica della società civile, essere al servizio dei lettori e non comportarsi da servi proni ai voleri dei vari potentati.
Al punto, ha dato davvero fastidio veder presentare, in articoli che sembravano più pubblicità redazionali che altro, il Book City come prima rassegna della letteratura milanese, ignorando del tutto il FestivaLetteratura di giugno, che ha avuto un seguito e una partecipazione tutt’altro che trascurabili. E ancor più fastidio ha dato veder riferire senza alcun commento la mirabolante invenzione, che Boeri e gli organizzatori ascrivono al loro genio, del “festival diffuso”, della letteratura portata nei luoghi della città, della cultura che va incontro ai cittadini. Tutti slogan e concetti copiati pari pari dal progetto del FestivaLetteratura, riproposti senza nemmeno cambiare un termine o l’ordine di esposizione.
Tutto ciò infastidisce perché, oltre a non rendere merito a chi ha “inventato” quella che è stata davvero la prima rassegna culturale diffusa sul territorio cittadino, determina una delle più classiche operazioni di occultamento della memoria. Gli stessi giornali che ora dedicano ampio spazio al “primo festival milanese ecc ecc”, infatti, hanno dato bene o male, seppur con minore rilievo, notizia e conto della rassegna di giugno. Sarebbe bastato dare un’occhiata in archivio per evitare di avallare quella pretesa primazia che i “grandi” si ascrivono con noncurante faccia tosta. E magari, se non è chiedere troppa fatica, se qualcuno si fosse preso la briga di andarsi a rileggere lo spirito e gli intenti del FestivaLetteratura (che da mesi sono reperibili in rete) si sarebbe anche accorto che i geniali creatori del Book City altro non hanno fatto che fotocopiare un’idea e un progetto, appropriandosene.
A questo punto, tanto per fare un po’ di informazione, vale forse la pena di raccontare quel che è accaduto. I grandi editori milanesi tramano da tempo per creare una grande manifestazione letteraria nella loro città, frenati però dalle possibili ricadute negative nei rapporti con altri eventi ben radicati e storici, come il Salone di Torino e il Festival di Mantova. Per anni hanno ipotizzato fiere concorrenziali, rassegne festivaliere e altre soluzioni che, però, li mettevano in diretta rotta di collisione con gli eventi esistenti; così, frenati da continue differenze di vedute all’interno del loro circolino, si erano ritrovati a rinviare all’infinito, non trovando la misura né l’accordo per uscire dallo stallo. Il FestivaLetteratura, che ha dato visibilità e spazio al vitalissimo “sommerso” della cultura milanese, li ha quasi costretti a forzare i tempi e superare i distinguo, nella speranza di soffocare nella culla l’evento appena nato facendone subito seguire un altro, ben più reclamizzato. Oltretutto, il festival di giugno ha risolto loro il problema della formula: l’hanno copiata pari pari, trovandola diversa quanto bastava dal Salone torinese e dal Festival mantovano. La pronta sponsorizzazione politica ha fatto il resto.
Di queste dinamiche potrebbe occuparsi qualche giornalista delle pagine culturali, se ne sopravvive qualcuno che non si limita a fare da ufficio stampa per singoli o associati colossi dell’editoria. E sarebbe interessante che le raccontasse al grande pubblico dei lettori.
Quanto alla speranza di soffocare il FestivaLetteratura nella culla, però, i grandi editori hanno certamente sbagliato i conti. Il festival è già in moto per la seconda edizione, si sta radicando con varie iniziative sul territorio, continuerà a esistere e a difendere la formula dalle goffe imitazioni. E poiché il FestivaLetteratura è nato prima e, con buona pace dei replicanti, ha davvero lanciato un diverso approccio alla diffusione della cultura, vale anche in questo caso la regola del paradosso di Zenone: per quanto sia dieci volte più veloce (e più potente), Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga.

Lascia un commento

Archiviato in comunicazione, cultura, etica, istituzioni, piccoli editori

La scuola, l’università, la formazione e il lavoro

di Cristiano Abbadessa

Da che ho memoria, praticamente ogni ministro dell’Istruzione (dal nome del dicastero è sparito “pubblica”, e non è un caso: ma questa è un’altra storia) ha presentato il suo piccolo o grande progetto di riforma della scuola e, con più parsimonia, dell’università. Puntualmente, gli studenti e gli insegnanti, talora con motivazioni diverse, hanno bocciato i provvedimenti ipotizzati e proclamato agitazioni nelle diverse forme.
Nell’autunno del 1978, quando ero al liceo, l’oscuro ministro Pedini (una meteora nello statico panorama politico italiano) presentò un suo progetto di riforma per la scuola superiore: ipotesi che durò poco o nulla, perché di lì a poco il Pci ritirò l’appoggio al governo monocolore democristiano, dichiarò esaurita l’esperienza della solidarietà nazionale e ci furono lo scioglimento delle camere e le elezioni anticipate. Il progetto di riforma di Pedini teneva conto degli equilibri politici dell’epoca e strizzava l’occhio alla sinistra, soprattutto in forma di diffuse manciate di demagogia: ricordo, per esempio, che veniva riformato anche l’esame di maturità, adottando una formula così lieve e accomodante da garantire a tutti non solo la promozione ma anche buoni voti. Tuttavia, i movimenti degli studenti contestarono ugualmente la riforma, asserendo che essa prevedeva “una scuola funzionale al sistema economico e produttivo” anziché alla formazione e alla crescita culturale dei giovani; il presupposto su cui si basava questo giudizio stava in alcune misure che il ministro pensava di introdurre per gli istituti tecnici e professionali, finalizzando maggiormente l’apprendimento all’ingresso nel mondo del lavoro attraverso l’inserimento nei programmi di materie legate allo sviluppo tecnologico e forse prevedendo persino contatti (stage? forse non si diceva ancora così) col mondo delle imprese.
Con il passare degli anni abbiamo visto movimenti studenteschi protestare per chiedere esattamente quel che allora proponeva il ministro, andando oltre e chiedendo di porre il carattere pratico della formazione al centro dell’insegnamento. Se devo però rifarmi all’esperienza personale, mi sento di poter dire che la scuola, e soprattutto l’università, hanno trovato nel tempo, sul tema, una via di mezzo solo apparente, che molto assomiglia alla media statistica del mezzo pollo di Trilussa.
La mia sensazione è che si sia partiti da una netta distinzione tra le facoltà tecniche (in senso ampio) e quelle umanistiche. Nelle prime lo studente apprende tutti gli strumenti tecnici utili allo svolgimento della professione, con tanto di specializzazioni molto specifiche. Mancando però un respiro culturale più ampio, spesso tali strumenti restano mere tecnicalità, di cui il laureato saprebbe servirsi a patto che qualcuno gli dicesse come e dove. Manca, insomma, quella capacità di analisi dell’esistente che poi consente di adottare delle misure che possono anche richiedere una competenza tecnica.
Non posso, per ragioni di mia inadeguatezza in materia, valutare per tutte le categorie quanto questo sia vero. Ho però preso atto con sconforto di casi di neolaureati in economia e affini (quelli che oggi sono “i tecnici” per eccellenza) che proponevano strategie di marketing e sviluppo imparate sui banchi, senza far differenza tra l’essere chiamati a pianificare (sono esempi ipotetici) il lancio di Autodafé edizioni o la soluzione di una crisi del gruppo Mondadori. Ricette uguali, senza tenere conto di un contesto che non sanno leggere e discernere, per questi cosiddeti esperti del problem solving che in realtà non servono a nulla: perché se non hai capito il problema, è un po’ presuntuoso (oltre che inutile) pretendere di proporre una soluzione.
Se i laureati tecnici si avvicinano al mondo del lavoro reale con la presunzione di chi ha la verità in tasca pronta all’uso e una speculare assenza delle basi dell’interpretazione del mondo, mia impressione è che chi esce dalle facoltà umanistiche non abbia invece acquisito, almeno all’interno dei corsi di studio, neppure una vaga conoscenza del mondo del lavoro, a cominciare da quelle stesse professioni che (tolto il mero reinsegnamento dell’appreso) dovrebbero essere connesse al titolo conseguito.
Nello specifico, allibisco nel rendermi conto di quanto i laureati in lettere siano fermi alla pura cultura letteraria ma nulla conoscano dell’industria editoriale, delle forme di lavoro in cui si esplica oggi la comunicazione, delle filiere e dei processi. Capita di parlare con giovani che vorrebbero lavorare nel settore, e magari proprio nell’editoria libraria e narrativa, e non sanno come nasce un libro, che cosa è una scheda di lettura, come si scrive una recensione e qual è la sua funzione; non si parla qui di addentrarsi troppo nei dettagli della professione, ma almeno di conoscerne le basi e i fondamentali. Eppure anche questi laureati hanno seguito indirizzi specifici, che avrebbero dovuto andare oltre la pur necessaria formazione culturale per cominciare ad avvicinare lo studente almeno alla vaga idea di come funziona l’industria editoriale (visto che di quella vogliono occuparsi, sulla base del titolo che gli è stato riconosciuto).
Che il sistema formativo sia rivedibile è sicuro. Che scuola e università necessitino di una nuova riforma e che debbano rivedere i loro obiettivi è altrettanto certo. Così come palesi sono le colpe della politica e quelle degli esperti del settore. Mi domando, però, se certe disfunzioni nascano solo da errori e da scarsa capacità di intervento. Perché, maliziosamente, mi viene da notare che un mondo di neolaureati che, per una ragione o per l’altra, non sono affatto pronti per l’ingresso nel mondo del lavoro costituisce il presupposto necessario per il mantenimento nel tempo di un bacino di manodopera a basso costo costretta per anni a barcamenarsi tra stage gratuiti, miseri contratti di formazione lavoro, impieghi sottopagati: sempre ringraziando il datore che è tanto gentile da fornire un’opportunità. E, in più, questo stato delle cose può anche alimentare quel vasto mercato di costosi master e meno prestigiosi corsi di formazione professionale specifica che, finalmente, cominciano per davvero a spiegarti qualcosa del lavoro che in futuro vorresti fare.

2 commenti

Archiviato in cultura, formazione, governo, istituzioni