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Il partito del No e il partito del Fare (possibilmente bene)

di Cristiano Abbadessa

Mentre scrivevo le mie note per l’ultimo post, la scorsa settimana, accadevano simultaneamente due fatti che riguardavano proprio le due questioni che avevo appena posto in relazione: la riforma del mercato del lavoro voluta dal governo e il Festival dell’Inedito di Firenze. In entrambi i casi, e nelle stesse ore, si registrava una parziale marcia indietro dei promotori: il governo riammetteva la possibilità almeno teorica del reintegro per i lavoratori licenziati per motivazioni economiche, gli organizzatori del Festival, abbandonati da sponsor e testimonial, proclamavano una moratoria dell’iniziativa. Continuo a parlare di marce indietro parziali perché, come per la questione dei licenziamenti quasi tutto verrà demandato ai dettagli del provvedimento e alle effettive discrezionalità dei giudici, così per la rassegna fiorentina la sospensione ha un carattere di provvisorietà ed è condita da tali precisazioni che nulla porta a escludere una riemersione dell’iniziativa, magari con meno nomi noti in prima fila e con un profilo più dimesso (ma non per questo meno efficace rispetto agli scopi).
Abbandono per il momento la vicenda della riforma del mercato del lavoro e mi appunto qualche considerazione che emerge con nettezza da quanto accaduto intorno al Festival dell’Inedito. Primo: forze diverse, ma tutte ugualmente contrarie allo spirito dell’iniziativa, hanno saputo rispondere con voce chiara e unanime, si sono fatte sentire attraverso la rete e media più tradizionali con una forza tale da raggiungere, almeno per il momento, lo scopo. Secondo: nel tumultuoso mondo dell’editoria in trasformazione può accadere, anche in buona fede (e per qualcuno degli attori coinvolti sarei pronto a scommetterci), di dare credito a tentativi che possono apparire in grado di fornire risposte a problemi concreti ma che celano in sé pericolosi germi. Terzo: la capacità di mobilitarsi è alta e pagante quando si tratta di bloccare qualche iniziativa potenzialmente pericolosa, ma viene a scemare subito dopo, lasciando sul tappeto, irrisolti, tutti i problemi.
Torno allora al parallelo con la riforma del mercato del lavoro, perché davvero esemplare. Stemperato il significato anche simbolico della cancellazione di alcune norme previste dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si incassa un’apparente vittoria salvo poi ammettere (chi a mezza bocca, chi con toni più acuti) che è la riforma nel suo complesso a non offrire né maggiori opportunità di accesso al mondo del lavoro per gli esclusi né maggiori garanzie complessive a chi è nel novero degli inclusi. Allo stesso modo, il fronte capace di coalizzarsi ed esternare con efficacia quando si tratta di bacchettare tutto ciò che ha il sapore di “editoria a pagamento” (nel senso più largo e onnicomprensivo del termine) non riesce a costruire una proposta concreta per rendere più aperto e più vivace il mercato editoriale, con particolare riferimento al settore della narrativa italiana (perché di autori italiani, o aspiranti tali, stiamo in definitiva parlando).
Eppure la questione è assolutamente centrale, direi decisiva per la stessa sopravvivenza di un’editoria plurale, non recintata negli strettissimi confini di quei pochi grandi gruppi che controllano il mercato in tutte le sue forme e ramificazioni.

Noi di Autodafé, come noto, stiamo lavorando da tempo attorno a ipotesi che siano capaci di creare alternative, di aprire spazi di mercato, di offrire opportunità. Certamente commettendo anche errori, ma cercando appunto di costruire, e non da soli, qualcosa che vada oltre la semplice espressione del lamento o della contrarietà.
Servono però interlocutori per costruire una rete, e trovarli non è facile. Servono autori (non solo nostri, ovviamente) che vogliano crescere e confrontarsi, con l’ambizione di guardare oltre il limitato orizzonte del “trovare un editore che mi pubblica”. Servono altri editori che condividano il progetto di un’editoria di qualità e una visione eticamente sensibile del proprio ruolo. Servono librai che vogliano scommettere sul protagonismo di un mercato alternativo, anziché rassegnarsi al piccolo cabotaggio di una sopravvivenza messa infine nelle mani dei loro stessi concorrenti. Servono lettori che abbiano voglia di sostenere attivamente progetti culturali condivisi, uscendo dalla logica del “consumatore”. Serve che tutti questi attori condividano valori e finalità, ma che sappiano anche che a ognuno tocca la sua fetta di rischio e di investimento (non necessariamente economico), perché l’alternativa è soltanto la messianica attesa del grande moloch editoriale che assomma in sé tutte le funzioni (oserei dire persino la creazione e il consumo, in una filiera pienamente controllata). Ed è necessario che i soggetti coinvolti sappiano anche cogliere le potenzialità positive di nuove forme di approccio al mercato, di distribuzioni e vendite alternative, senza trincerarsi dietro le false garanzie (non) offerte dalle regole poste a tutela del proprio improduttivo orticello.
Stiamo lavorando a questo, con interlocuzioni interessanti ma ancora numericamente insufficienti. E riteniamo che sia il momento di dare ampiezza e spessore al tentativo di creare un’alternativa, alla costruzione di una rete che unisca tutti i punti della filiera editoriale attorno al progetto di un’editoria di qualità. Sapendo fra l’altro che gli esempi non mancano, ma che sono finora declinati in un ambito ristretto e territoriale a nostro avviso insufficiente per costituire una vera alternativa.
Vorremmo che la stessa passione messa da tanti nel dire No alle iniziative poco trasparenti (come il festival fiorentino) venisse impiegata nel costruire una proposta e nel portarla avanti. Altrimenti la capacità di aggregazione diventa solo uno strumento di difesa dello status quo; che a parole non sembra essere lo status ideale per nessuno, ma che forse, in definitiva, fa meno paura dell’impegno diretto in un lavoro di cambiamento.

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Se gli editori sono troppi, l’autore ci perde o ci guadagna?

di Cristiano Abbadessa

Primo atto. Giovedì scorso, di mattina, rivedo una vecchia amica, con cui ero tornato in contatto un po’ più di un anno fa perché il marito intendeva sottoporci un suo libro. Non gli avevamo proposto un contratto, un po’ perché lo scritto era davvero agli estremi confini della nostra linea editoriale, un po’ perché si trattava di un’opera monumentale, di quelle che richiedono uno sforzo redazionale notevole, una mole di lavoro impressionante e che comportano spese di produzione decisamente elevate; una di quelle opere, insomma, che un editore decide di pubblicare solo se ci crede fino in fondo, senza trascinarsi dietro dubbi di sorta. L’amica mi dice che il marito ha infine trovato un editore, e che il libro è di prossima uscita. Ne sono lieto e glielo dico, confermandole la natura dei nostri dubbi. Ma, siccome la circostanza in cui ci siamo ritrovati è dolorosa, il discorso cade e non ci penso su più di tanto.
Secondo atto. Sempre giovedì, ma nel tardo pomeriggio, partecipo alla presentazione milanese di Diecipercento e la Gran Signora dei tonti, della nostra Antonella Di Martino. Ambiente informale, molti dei presenti ormai si conoscono, la presentazione diventa occasione di una chiacchierata ad ampio respiro, in cui vengo coinvolto. Dopo aver spiegato i nostri criteri di scelta, mi viene chiesto se ci è capitato di pentirci di una bocciatura, di vedere un’opera da noi scartata avere successo dopo la pubblicazione con altro editore. Rispondo di getto che non mi risulta che titoli da noi scartati siano diventati dei bestseller da decine di migliaia di copie o dei casi editoriali; ma aggiungo subito che bisognerebbe però chiedere i dati di vendita a tanti piccoli editori, perché in effetti molti autori passati al nostro vaglio hanno poi pubblicato con altre case editrici: e sapere se hanno venduto nell’ordine delle migliaia di copie, o delle centinaia, o delle decine, fa una bella differenza.
Nei giorni a seguire torno a riflettere su una realtà cui avevo già accennato in uno dei miei primi interventi, ma senza approfondirla a dovere. Se prendo in mano l’elenco degli autori e delle opere cui abbiamo dedicato una minima attenzione, chiedendo il manoscritto e discutendo tra noi l’opportunità di proporre un contratto, mi rendo conto che moltissimi hanno poi pubblicato, nel giro di breve tempo, con altri editori. In alcuni casi siamo stati battuti sul tempo, altre volte abbiamo scartato l’opera perché non ci convinceva fino in fondo (magari più per temi e punto di vista che per qualità), ma riconoscendole una sostanziale dignità letteraria. Addirittura abbiamo visto pubblicare opere da noi scartate senza indugio, per totale incompatibilità temetica con la linea editoriale, nelle quali però avevamo intravisto il germe di uno stile non disprezzabile.
Insomma, se traccio un bilancio, vedo che quasi tutte le opere ottime, buone o discrete passate per la nostra redazione hanno infine trovato un editore. Ovviamente ciascun editore segue i propri parametri di scelta: c’è quello che cerca una qualità letteraria elevata e quello che si accontenta di uno scritto gradevole e leggibile; c’è chi insegue temi e generi alla moda e chi persegue invece una propria precisa linea editoriale; c’è chi cerca un prodotto già “maturo” nello stile e persino nella redazione e chi guarda soprattutto alle idee e ai contenuti, riservandosi di migliorare con l’autore la fluidità della narrazione; c’è chi vuole autori in grado di autopromuoversi o spendibili come “personaggi” e chi procede seguendo i propri canali distributivi, magari limitati ma collaudati e sicuri. Alla fine, in ogni caso, è piuttosto facile che un’opera di buon livello trovi il suo sbocco verso il mare magno del mercato.
Mi viene in mente che nel mondo editoriale sento spesso ripetere una frase fatta: ci sono ormai più scrittori che lettori. Frase pronunciata di solito dagli editori, in parte per lamentarsi della mole di proposte ricevute, ma soprattutto per spiegare che è più facile produrre libri che venderli. Visto che, però, tutto quel che è pubblicabile viene in effetti pubblicato (e magari non venduto), non sarà anche vero che ci sono più editori che scrittori?
Sono ovviamente due paradossi, ma neppure troppo. I lettori sono più degli scrittori, ma tutti i libri scritti e pubblicati superano di gran lunga la capacità di “consumo” dell’universo dei lettori. Allo stesso modo, ci sono più scrittori che editori, ma per costruire i propri cataloghi gli editori, nel loro insieme, devono davvero raschiare il barile della produzione letteraria degna di questo nome.
Se ripenso alla nostra breve storia, mi accorgo di quanto sia cambiato nel giro di soli due anni. Siamo partiti da una situazione in cui molti autori validi andavano ancora proponendo buoni libri scritti ormai da qualche anno, ma rifiutati dagli editori; l’editoria a pagamento era fenomeno relativamente nuovo, che appariva una soluzione plausibile anche ad autori con legittime aspirazioni, di fronte al silenzio degli editori “puri”; nel limbo dell’autopubblicazione (che ancora non poteva contare sulla versione ebook) giacevano dimenticate ottime opere, in attesa di essere scoperte e ripescate (cosa che abbiamo fatto). Oggi riceviamo solo proposte fresche di composizione, gli editori a pagamento sono percepiti come l’ultima spiaggia dei falliti che non si rassegnano, l’autopubblicazione è un’alternativa consapevole e non un deposito di ambizioni frustrate. Se prima l’offerta degli autori era largamente superiore alla domanda degli editori (da cui la nascita dell’editoria a pagamento, come ovvia risposta a un vasto mercato di aspiranti scrittori), oggi il contratto di edizione diventa il paritario punto di incontro di due desideri: la voglia degli scrittori di vedere pubblicata la propria opera e la necessità degli editori di dotarsi di un catalogo sufficientemente ampio.
Come editore, questo riequilibrio tra domanda e offerta, e perciò nei rapporti di forza (anche contrattuali) dovrebbe preoccuparmi. In realtà credo che la mutazione in atto porterà a un cambiamento nell’interpretazione dei ruoli, che uscirà dagli schemi tradizionali e offrirà nuove possibilità tanto agli autori quanto agli editori, purché entrambe le categorie sappiano cogliere i segnali di mutamento e le nuove opportunità. Nel frattempo, non posso fare a meno di registrare le immediate conseguenze, che credo abbiano a che fare con quanto scrivevo la scorsa settimana a proposito del tracollo qualitativo delle proposte ricevute nel nostro secondo anno. (Oppure, può essere che il livello delle proposte sia calato perché inizialmente molti buoni autori avevano guardato al nuovo editore sperando che potesse diventare un attore di medio calibro e non uno dei tanti piccoli editori specializzati. Il che non cambia la sostanza del problema, confermando semmai che i piccoli editori sono troppi e, in genere, non soddisfano le aspettative degli autori).
Dopo tanto riflettere, mi sorgono alcune domande, che volentieri propongo per un’auspicata discussione collettiva.
In primo luogo: anche gli autori hanno la mia stessa sensazione che gli editori sul mercato siano tanti e forse troppi? E, in caso affermativo, come si pongono di fronte a questa realtà: affinando i criteri di scelta o ipotizzando percorsi alternativi?
Seconda questione. Fino a poco tempo fa, riuscire a suscitare l’interesse di un editore significava veder valutata in modo positivo la propria opera: di fronte alla sovrabbondanza dell’offerta autoriale, il riscontro del giudizio dell’editore era un certificato di qualità, a prescindere dalla conclusione di un accordo. Non hanno anche gli autori la sensazione che, ora, la presenza di molti (troppi) editori finisca per portare sul mercato anche opere appena dignitose, facendo venire meno quell’opera di selezione che un tempo era un primo credibile metro di valutazione del proprio lavoro?
E infine. Se oggi è più facile pubblicare, questo significa che aumenta ulteriormente la produzione libraria, in un mercato già soffocato e in cui l’offerta supera la domanda dei lettori. Considerando che la visibilità di un piccolo editore è comunque limitata, ogni singolo titolo pubblicato vede perciò ridursi fortemente, di fronte a una concorrenza sterminata, le possibilità non dico di “sfondare”, ma anche solo di ripagarsi. Al di là della soddisfazione di “essere pubblicati”, vale davvero la pena di fare tanti sforzi per trasformare semplicemente la propria forma di invisibilità? Ovvero, vale davvero la pena di entrare nel mercato editoriale per far leggere la propria opera a parenti, amici e conoscenti?

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Se il libraio diventa critico letterario. Il ruolo degli intermediari fra autore e lettore

di Cristiano Abbadessa

Negli ultimi mesi, complici la latitanza o l’inefficienza di buona parte dei nostri distributori, abbiamo avuto modo e necessità di stringere rapporti diretti e più stretti con alcuni librai. Talvolta il rapporto è nato dall’interesse del libraio stesso, altre volte siamo stati noi a cercare la disponibilità di qualche punto vendita indipendente che ci sembrava interessante. In questo secondo caso, può capitare che il libraio risponda o che neppure si degni. Se risponde, può succedere che ordini direttamente qualche copia di alcuni titoli, andando a fiuto, a volte con un certo entusiasmo per la nuova proposta editoriale e a volte dando il senso di un fastidio che fa prevedere la grama sorte di quelle copie che ristagneranno per qualche mese su uno scaffale periferico; oppure succede che dia risposta altrettanto immediata ma opposta, declinando l’offerta e spiegando magari che non desidera rapporti con singoli editori o con piccoli editori. Infine, può anche capitare che il libraio chieda qualche titolo per leggerlo, prima di decidere se ordinare delle copie da esporre al pubblico; dopo averle lette, ci manifesta il suo interesse o il suo disinteresse, e la conseguente decisione di ordinare o meno.
È ovvio che una manifestazione di interesse fa molto piacere all’editore, così come una “bocciatura” demoralizza. Debbo tuttavia preliminarmente dire che, poiché ci lamentiamo spesso della curiosa filiera dell’editoria in cui di solito i venditori nulla sanno del prodotto, la mia istintiva simpatia e il mio ringraziamento vanno comunque a questi librai che si sobbarcano la fatica di scegliere leggendo, e che, indipendentemente dal verdetto, li sento più affini rispetto a quelli che decidono solo in base alle loro strategie di mercato e di posizionamento. Per questo motivo, di solito, non condivido le forme di risentimento che alcuni tra noi manifestano quando un libraio, come per fortuna raramente capita, rifiuta i nostri titoli dopo averne letto qualcuno; mi consolo con la maggioranza che, invece, esprime un giudizio positivo, ringrazio comunque e vado avanti.
Tuttavia, l’altro giorno sono rimasto un po’ sconcertato di fronte al garbato rifiuto di un libraio. A lasciarmi perplesso, infatti, in questa circostanza sono state le motivazioni, che mi hanno fatto riflettere. Perchè il nostro, seppure in forma molto sintetica, si è espresso nei termini propri del critico letterario, soppesando pregi e difetti delle due opere che gli avevamo inviato in visione (fra l’altro, due di quelle con le migliori recensioni e le maggiori vendite); ma, e qui sta il punto, lo ha fatto riconducendo il tutto a un giudizio estremamente personale, fondato infine su quel che gli piaceva e non gli piaceva in base al suo gusto e al suo canone letterario (evidentemente piuttosto rigido, fra l’altro, essendo le due opere in questione assai diverse tra loro per stile).
Ora, io mi aspetterei da un libraio un criterio di scelta un poco diverso. Restando valido quanto detto sopra, e quindi apprezzando il fatto che non vengano ordinati dei titoli tanto per farlo e lasciarli a impolverarsi senza essere in grado di consigliarli a nessuno, riterrei però che un librario dovrebbe capire se un’opera è buona nel suo genere, e quindi consigliabile a chi quel genere e quello stile li apprezza; il fatto che a lui personalmente quel genere non piaccia, dovrebbe essere fattore del tutto secondario. Anche nell’interesse del libraio stesso, voglio dire, che altrimenti rischia di ridursi a vendere una manciata di titoli che sposano esattamente il suo gusto.
Una scelta basata sul solo criterio del mi piace, non mi piace è riduttiva e rischiosa. Noi stessi, per dire, non scegliamo cosa pubblicare in base a un unico giudizio. Abbiamo i nostri paramentri oggettivi, certo, a cominciare dalla compatibilità con una tematica precisa (la realtà sociale). Ma quando arriviamo a chiedere un manoscritto, lo sottoponiamo a diverse letture, di persone che non hanno gli stessi gusti e le stesse inclinazioni di genere e stile. E, per norma che ci siamo dati, pubblichiamo opere che qualcuno tra noi ha ritenuto “ottime”, anche se a qualcun altro sono piaciute pochino, mentre evitiamo di pubblicare quelle che, anche unanimemente, sono giudicate piacevoli, decorose e nulla più; perché le prime hanno le qualità per farsi amare almeno da una fetta di pubblico, mentre le seconde sono compitini sufficienti che non colpiscono la fantasia di nessuno. Poi in redazione si può lavorare a valorizzare pregi e smussare difetti, ma l’opera grezza deve già possedere un suo fascino preciso.
Ho voluto brevemente spiegare come procediamo nella scelta dei titoli perché ritengo che, con ruoli diversi, editore, recensore e libraio siano infine degli intermediari tra la creazione dell’autore e il gusto, mai sindacabile, dei diversi lettori. Io, da direttore editoriale, non necessariamente pubblico opere che devono piacere a me in quanto lettore; ma devo saperne riconoscere le potenzialità (se esistono) e devo fidarmi del giudizio di chi ha maggiore dimestichezza con quel genere e quello stile, decidendo insieme se l’opera è in grado di piacere al suo pubblico. Lo stesso, a maggior ragione e con la predisposizione a presentare un’offerta più ampia (se non si tratta una libreria di genere), dovrebbe fare il libraio; che ha il compito, non certo facile, di entrare in sintonia con opere che personalmente non gli dicono nulla, ma che potrebbero essere eccellenti per molti dei suoi clienti lettori. I quali, a loro volta, chiedono di essere indirizzati, dopo aver espresso le prorie propensioni, verso titoli che possano essere di loro gusto, e non di gusto del libraio.
Ruolo difficile quello del libraio consigliere, certo diverso da quello dell’editore, seppure con alcuni punti di contatto. E certamente diverso da quello del recensore, sulla cui funzione di intermediario tornerò la prossima volta.

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Libri, librai e librerie. Quando la scelta non è possibile

di Cristiano Abbadessa

Registro con attenzione il commento di Fabio Giallombardo, pubblicato su questo blog al momento di sottoscrivere la prenotazione per l’abbonamento (prenotazione indispensabile, lo ricordo: sulla base delle adesioni raccolte decideremo come modulare e gestire nel dettaglio l’operazione). Lo leggo con calma e cura perché, in poche righe, condensa diversi temi interessanti.
Mi soffermo sulla frase che introduce il concetto posto a chiusura: «Naturalmente spero che questa nuova e lodevole iniziativa di vendita online non sostituisca in nessun modo la vendita al dettaglio presso le librerie». Su questo, in prima battuta, posso tranquillizzarlo: la campagna di abbonamento e sostegno, proprio per come è stata pensata e proposta, non può andare a sostituire la vendita dei nostri titoli anche attraverso il canale tradizionale delle librerie. A riprova, come avrete forse notato (o saputo tramite facebook o newsletter), siamo finalmente riusciti, dopo estenuanti solleciti e faticose verifiche, a pubblicare sul nostro sito un primo elenco di librerie che hanno a disposizione le nostre opere o che possono ordinarle, ricevendole in tempi brevi, in quanto in stretto e costante contatto coi nostri distributori o direttamente con noi (ovviamente, scusate la pedante precisazione, non è che al momento tutte queste librerie abbiano tutti i nostri titoli sugli scaffali: però ci conoscono e possono evadere celermente qualunque ordine).
La proposta di abbonamento e sostegno, per sua natura, non può considerarsi rivolta all’intero e indistinto universo dei potenziali lettori. È chiaro, come sempre Fabio ha fatto notare, che per aderire bisogna essere convinti della bontà del progetto editoriale nel suo insieme e avere una certa consapevolezza circa il significato del gesto. Abbiamo immaginato di trovare un riscontro positivo in chi ci segue da tempo, in chi ha apprezzato l’insieme della nostra produzione, in chi ha validi motivi per sostenere il progetto di un piccolo editore specializzato in narrativa di qualità e con un taglio sociale. Accanto agli abbonati, è naturale, resteranno i molti lettori occasionali, quelli che in un anno acquisteranno un nostro titolo o forse due, ma ai quali non è pensabile chiedere di più.
Questo, peraltro, non vuol dire che non sussistano forti perplessità sulla politica commerciale delle librerie, come più volte sottolineato, e come ci sembrino per certi versi poco comprensibili soprattutto le scelte dei librai indipendenti (quelli “di catena” hanno altre logiche, però, a modo loro, perseguono con coerenza un obiettivo, inevitabilmente diverso dal nostro). Come ho già cercato di far capire, il progetto di distribuzione diretta, quando è nato, aveva il sogno di evolvere fino a declinarsi come una proposta fatta da un pool di editori: cosa che avrebbe offerto una più ampia scelta di titoli ai lettori e che avrebbe consentito, magari con il supporto di una struttura “consortile” creata allo scopo, di aprire un canale di trattativa con le librerie. Perché, questo è bene ribadirlo, molte librerie rifiutano in modo assoluto il contatto coi singoli editori.
Ed è a questo punto che si inserisce l’unico motivo di dissenso con quanto scrive Fabio. Il quale, come già altri prima di lui, ci ribadisce che «la maggior parte dei lettori ama comprare i libri esclusivamente in libreria». Ora, so benissimo che le cose stanno così, che la libreria ha per molti lettori una valenza simbolica insostituibile e che esistono anche motivi “etici” per sostenere la filiera nel suo insieme. Tuttavia, devo far presente che il lettore può raccontarci che preferisce acquistare in libreria, a patto che questa sia una libera scelta. E una scelta, per essere tale, si basa sul presupposto dell’esistenza di almeno due alternative. In realtà, come più volte spiegato, spesso e volentieri le alternative non esistono: molti titoli di piccoli editori non hanno alcun accesso alle librerie, e quindi nelle librerie, semplicemente, non possono essere acquistati.
Su cause e responsabilità di questa situazione ci siamo espressi ampiamente più volte, e stavolta vorrei evitare di ripetere le riflessioni filosofiche o sistemiche. Analizzare i problemi va bene, ma al dunque bisogna anche trovare delle risposte e delle soluzioni. E quindi – chiedo al lettore che vuole acquistare in liberia e che «per decenni non cambierà per nulla al mondo le proprie abitudini» – come si comporta quando viene a conoscenza dell’esistenza di un libro che gli interessa ma che non riesce a trovare né ordinare in alcuna libreria della sua città? Preferisce rinunciare all’ipotesi di acquisto, e non leggerlo, o preferisce che gli venga data un’alternativa? Spero che la risposta vera sia la seconda.
E proprio perché l’abbonamento a un singolo editore non può essere la soluzione alternativa per quel lettore (magari occasionale), ecco che il grande problema di un canale di vendita diretto e alternativo resta aperto e da affrontare con approccio più “laico”.

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La libreria è inutile senza i suoi scaffali

di Cristiano Abbadessa

Capita, per fortuna sempre più di frequente, che una libreria sprovvista dei nostri titoli ci contatti per esaudire l’ordine di un cliente. La richiesta di una precisa opera potrebbe, e dovrebbe, essere la fiammella che accende un reciproco interesse e un’ipotesi di collaborazione. Purtroppo, quando proponiamo al libraio di prendere in considerazione il nostro catalogo anziché limitarsi a ordinare un’unica copia del titolo richiesto dal cliente, troppo spesso ci troviamo di fronte al famoso muro di gomma. C’è chi ci scarta perché non abbiamo un distributore in quella zona e non vuole contatti con singoli editori. Chi, magari essendo parte di una grande catena, non ci vuole perché non abbiamo i distributori giusti. Chi, magari facendo parte di una piccola catena indipendente, ci vorrebbe anche, ma non può ordinare personalmente le copie perché la piccola catena ha subito assorbito tutti i vizi burocratici e centralizzatori dei colossi della distribuzione. C’è infine il libraio che è piccolo e indipendente, come noi, ma che si trincera dietro problemi di spazio (che preferisce riservare ai soliti bestseller).
Ci sono, ovviamente, librai che cercano di superare i problemi, talora sobbarcandosi in maniera eroica anche delle fette di lavoro che spetterebbero ad altri. Ma ce ne sono troppi che si adagiano placidamente nella routine impiegatizia, anche tra coloro che non sono sottoposti ai vincoli delle grandi catene e che si fregiano con orgoglio dell’aggettivo indipendenti.
Ma, al dunque, quei librai che pretendono (e ovviamente ottengono, perché per noi e per loro “il lettore prima di tutto”) di ordinare e ricevere una sola copia, virtualmente già venduta al cliente che l’ha richiesta, rifiutando ogni altro contatto con l’editore, danno di fatto il loro piccolo contributo a scavare quella fossa in cui l’editoria indipendente (con tutte le sue figure e funzioni) verrà seppellita. Perché in questo modo cessano di essere librai per trasformarsi in una sorta di gestori di fermoposta, dove il cliente che aveva già a priori una forte determinazione a quel preciso acquisto va a ritirare il pacchetto che ha ordinato. Però, per fare questo tipo di lavoro non è necessario avere una libreria: sarebbe sufficiente attrezzare uno spazio minimo con computer e telefono; e, al limite, non vi sarebbe neppure bisogno di avere un negozio, perché si tratta di operazioni che si possono fare da un qualsiasi ufficio o persino da casa, ricevendo gli ordini via mail o via telefono. Ma a questo punto diventa evidente che questa intermediazione può essere svolta da un qualunque soggetto, e che in realtà essa stessa diventa superflua, perchè tanto vale ordinare la merce ai bookstore online o direttamente al produttore.
Per un piccolo editore la libreria ha ragion d’essere se è punto di riferimento e vetrina. Ovvero, se da un lato permette di indicare (per esempio sul sito della casa editrice) quali sono le librerie che, nelle varie città, hanno sicuramente a disposizione i titoli dell’editore in questione: un servizio che sarebbe fondamentale poter offrire ai nostri potenziali lettori. E, dall’altra parte, vi è l’importanza di essere presenti sugli scaffali di una libreria; più o meno visibili e più o meno promossi ma presenti, in modo che il marchio e i titoli comincino a essere notati anche dal lettore che non ci conosce e che non è entrato in libreria con la ferma intenzione di comprare una nostra opera.
Se non si verificano queste condizioni, il rapporto con la libreria, per un editore come Autodafé, diventa inutile; vale, in fatica e gestione, quanto il rapporto diretto col singolo lettore, ma in compenso è molto meno remunerativo e non svolge alcuna funzione promozionale.
Continuiamo a credere che la costruzione di un rapporto con alcune librerie sensibili, disponibili e realmente indipendenti sia un passaggio essenziale per la crescita dell’editore. Ma ci è chiaro che, a fronte di comportamenti troppo spesso scoraggianti, si tratta di operazione che richiede lavoro, pazienza e tempi lunghi.
Molto meglio, nel frattempo, costruire una solida comunità di lettori e amici che sostengano in forma diretta la casa editrice. La strada, come sapete, è quella dell’abbonamento. E attendiamo fiduciosi che la proposta venga percepita nella sua natura essenziale da tutti quelli che ci hanno finora seguito e incoraggiato.

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Belgioioso: la fiera non c’è, ma i piccoli editori esistono

di Cristiano Abbadessa

Nel prossimo fine settimana, secondo il calendario tradizionale in vigore da anni, la piccola editoria sarebbe stata in mostra nella storica fiera del settore presso il Castello di Belgioioso. Il periodo è questo, ma quest’anno la fiera non ci sarà.
Storico appuntamento per i piccoli editori di tutta Italia, la rassegna di Belgioso aveva consolidato per lungo tempo un suo specifico: luogo di incontro tra editori, autori e lettori, con contorno di operatori del settore a vario titolo e di media; luogo di confronto e circolazione di idee più che mostra-mercato, a differenza delle tante microesposizioni (alcune anche ambiziose) che sono proliferate negli ultimi anni e che rappresentano più che altro occasioni di vendita.
L’esperienza dello scorso anno a Belgioioso, per la nostra prima volta da espositori, non era stata a dire il vero esaltante, e già l’appuntamento mostrava tutti i segni di un declino annunciato. Meno pubblico, limitato a pochi appassionati e a qualche visitatore casuale e non necessariamente competente. Tante disfunzioni organizzative, alcune davvero fastidiose, figlie di un’approssimazione sconcertante. Qualche espositore in meno, soprattutto con l’evidenza di alcune assenze di rilievo, di editori che avevano fatto la storia dell’evento. Scarsa visibilità mediatica e scarsissima copertura giornalistica, con la stampa praticamente latitante.
In effetti, proprio per chi aveva prestato attenzione a quest’ultimo aspetto, il declino di Belgioioso era fenomeno ampiamente annunciato. Se in anni non lontani tutti i maggiori quotidiani si occupavano della rassegna, anticipandola con un paginone ricco di dati di voci e di idee riferiti al settore della piccola editoria, lo scorso anno la fiera aveva trovato spazio sulla stampa solo in miseri e infastiditi trafiletti che si limitavano a segnalarne l’esistenza. Dall’attenzione curiosa i media erano passati alla notizia sintetica, e c’era quasi da ringraziare per lo svolgimento della mera funzione informativa. E non poteva sfuggire che non si trattava di scelta casuale, ma del segno di un definitivo collateralismo tra grande stampa e grande editoria libraria, sempre più intrecciate in rapporti propietari o promozionali.
Infatti, già alla fine dell’edizione dell’anno passato i piccoli editori attendevano l’inevitabile scomparsa di Belgioioso dal calendario fieristico (e c’era persino stato un sussulto di iniziative per “salvare Belgioioso”, però più ricorrendo alle mozioni degli affetti che alle solide ragioni di una realtà culturale e imprenditoriale). La scomparsa si è poi materializzata nel silenzio. Dicono gli organizzatori, interpellati, per mancanza di sostegno da parte delle istituzioni locali; il che ovviamente non stupisce, semmai ribadendo il collateralismo anche tra la politica (nelle sue declinazioni partitiche maggioritarie) e la grande editoria (ma potremmo anche dire la grande industria o le grandi catene commerciali, e in generale tutto ciò che è potere economico e finanziario forte, in Italia e fuori).
Eppure, proprio per la chiarezza di tanti segnali e per l’evidenza del loro significato, la piccola editoria avrebbe dovuto fare di tutto per tenere in piedi l’evento. Perché, storicamente, Belgioioso era il luogo adatto per confrontarsi e parlare, per dare voce a chi non ha accesso ai media, alla distribuzione, ai punti vendita, alla notorietà di chi forma le opinioni.
Sarebbe stata un’occasione ideale, e più che mai necessaria, per parlarsi tra simili. Non per dare sfogo alle solite sterili lamentazioni o per stabilire artificiosi e sgradevoli confini tra buoni e cattivi, puri e asserviti (categorie che talora ricorrono e spostano il problema su un piano etico che diventa fuorviante). Ma per prendere atto che, semplicemente per una questione di legittimi interessi divergenti, l’editoria si è ormai separata in almeno due (o forse più) binari paralleli, che per ora sono destinati a non incontrarsi mai più, ma che già cominciano a correre persino in direzioni diverse. E, di conseguenza, per riconoscere che i piccoli editori devono trovare risposte nuove all’oscuramento mediatico, all’ostracismo distributivo e alla scarsa attenzione dei librai (persino di quelli indipendenti, nella maggior parte dei casi). E, quindi, per provare a fare sistema, a uscire dalla ridotta del proprio particolare per provare a battere insieme strade alternative, anziché porsi arrancando nella scia dei grandi, scimmiottandone le logiche e le prassi al solo scopo di raccogliere qualche briciola.
Belgioioso sarebbe stata l’occasione per vedersi, incontrarsi, parlarsi e trovare, insieme, delle risposte concrete, realistiche, non fumose; e per tentare, di lì a subito, di metterle in atto.
Noi di Autodafé eravamo pronti a partecipare alla fiera con questo spirito. Ma, mancando il luogo deputato all’incontro, ce ne è mancata la possibilità.
Vorrà dire che faremo da soli, e troveremo le nostre risposte.
E, per fare un po’ meno da soli, speriamo che le risposte siano condivise almeno da voi che ci seguite.

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Le librerie e il consumo consapevole nel mercato editoriale

di Cristiano Abbadessa

Se il consumo editoriale consapevole si pone l’obiettivo di creare nuove forme di contatto commerciale diretto fra produttore e consumatore, fra editore e lettore, ciò significa che in questa “filiera corta” non c’è più spazio per la libreria? È questione che sorge spontanea, proseguendo il ragionamento avviato nell’ultimo post, e che ci riporta ai soggetti principali dell’intervento di Sandro Ferri di e/o (http://loredanalipperini.blog.kataweb.it/), da cui siamo partiti. Ed è, sinceramente, anche il punto su cui meno concordo con le conclusioni di Ferri.
La libreria, oggi, è ancora un punto di riferimento importante e, apparentemente, imprescindibile. Ma non si può negare che anche i librai indipendenti dovranno, più o meno rapidamente, prendere atto dell’esistenza di due mercati editoriali paralleli. Per ora, molte librerie rappresentano ancora un punto di contatto fra queste due parallele; perché sono indipendenti ma famose, sufficientemente grandi, variegate nell’offerta, ben insediate nel territorio, con un loro affezionato pubblico.
Ma domani? L’impressione è che misure protezionistiche come il limite agli sconti siano imprescindibilmente necessarie per la sopravvivenza dei librai indipendenti, anche i più grandi e affermati. Misure che non trovo scandalose, ma che vanno contro l’oggettiva dittatura della legge di mercato e che corrono il rischio di essere cancellate da una semplice impugnazione di fronte all’Unione Europea e alle authority per la libera concorrenza. Nel qual caso, arriverà il colosso che imporrà una politica di dumping dei prezzi e cambierà radicalmente le regole del gioco; e, alla fine, i soggetti sopravvissuti (tra editori e librai, qui non fa differenza) saranno pochi e magari anche malridotti (e non è un caso che, librai a parte, siano gli editori medio-grandi a battersi contro il rischio di un dumping provocato da un colosso d’importazione; per i piccoli, in realtà cambia davvero poco).
La sensazione è che troppe librerie indipendenti dimostrino la stessa scarsa lungimiranza già palesata da molti negozianti al dettaglio di fronte al progressivo aumento dei grandi centri commerciali. Offrire tutti lo stesso tipo di prodotto è, per i piccoli, votarsi al suicidio. Perché la grande distribuzione avrà sempre un’offerta più ampia, prezzi più bassi e, volendo, qualche servizio aggiuntivo: tutti fattori che finiranno per condizionare le scelte di molti consumatori, spesso anche dei più sensibili, consapevoli e affezionati.
Il commercio al dettaglio conosce una profonda crisi in tutti i settori. I più avveduti tra i negozianti hanno battuto la strada della differenziazione, secondo schemi che però non sono riproducibili nell’editoria: o un’offerta di qualità molto elevata e costosa (ma nei libri il brand vincente è lo stesso brand della grande catena distributiva di massa) o un’offerta di prodotti a basso prezzo e di scarsa qualità (ma chi comprerebbe un libro dichiaratamente scadente, non trattandosi di genere di prima necessità?). In alcuni casi il dettagliante sopravvive grazie alla prossimità con il cliente; ma anche questa soluzione, ottimale soprattutto per i consumi quotidiani di persone poco mobili come anziani pensionati, appare scarsamente riproducibile (considerando anche che le librerie indipendenti di una certa fama tendono a dislocarsi nelle medesime zone occupate dai bookstore delle grandi catene).
Il rischio è che le mosse puramente difensive, e conservative, consentano di sopravvivere per un certo tempo, ma preparando con certezza uno scenario a medio termine già delineato: la progressiva eliminazione di piccoli e medi librai indipendenti e la sopravvivenza dei soli grandi punti vendita direttamente affiliati a editori-distributori.
Nel commercio, per esempio, di prodotti alimentari, i consumatori critici e consapevoli si sono rivolti a forme d’acquisto che mettono in contatto diretto produttore e consumatore: mercati contadini, gruppi d’acquisto solidale, forme di produzione “prenotata” dal consumatore. Eppure, non è detto che punti vendita di prodotti alternativi e garantiti (per qualità e filiera “etica”) non potrebbero avere successo, riportando il prodotto più a portata di mano del consumatore.
Per le librerie indipendenti, se non vogliono votarsi a una progressiva marginalizzazione, credo che la strada da seguire sia appunto quella di differenziare l’offerta: editoria di qualità ma tagliata fuori dai grandi circuiti distributivi, con un proprio preciso mercato di riferimento (poi, certo, si può sempre tenere il bestseller sottobanco: ma non può essere quello il prodotto “di punta” dell’offerta di un libraio indipendente).
Con un po’ di coraggio e di intraprendenza, anche i librai possono rompere l’accerchiamento. Certo, affrontando la fatica di scegliere i prodotti e coltivare i clienti, di selezionare i “propri” editori con cui avere un contatto diretto e di farsi garanti di fronte ai lettori, senza affidarsi alla comoda mediazione di una distribuzione omologata.
È una scelta che comporta qualche rischio, ma è sempre meglio di una probabile estinzione.

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Rischio zero

di Cristiano Abbadessa

Autodafé si propone di pubblicare opere di narrativa che stimolino la riflessione intorno alla realtà sociale dell’Italia contemporanea. Forse nessuna opera sarebbe in tal senso più significativa, e impietosamente fedele alla realtà, di quella che potremmo noi stessi scrivere qualora volessimo mettere in forma di narrazione la nostra avventura editoriale.
Per esempio.
Contatto un promotore editoriale per vedere se vi è una possibilità di collaborazione. È uno di quelli grossi, famosi e costosi, di cui tutti parlano bene. Promuove alcune case editrici andando con la sua rete di agenti nelle librerie, mentre per la distribuzione fisica dei libri si appoggia ai distributori maggiori (i più grandi sul mercato, per capirci). Nell’ambiente è tuttora conosciuto come “uno attento anche alle piccole realtà editoriali, capace di vedere l’idea e farla crescere”.
Mi presento, ci presento, inizio a spiegargli quali problemi vogliamo risolvere e perché pensiamo di poter ricorrere alla loro promozione. Mi stoppa quasi subito, per precisarmi che loro, adesso, accettano di promuovere solo editori che, nell’anno precedente, abbiano già raggiunto un certo livello di fatturato. E mi dice la cifra, che rappresenta il livello minimo per essere da loro considerati.
Non è, di per sé, una cifra assurda. In effetti è il fatturato che anche noi ci siamo dati come punto d’arrivo per una gestione sana e tranquilla della casa editrice. Come punto d’arrivo, però. Ed è evidente che una casa editrice nata da un anno, e con grossi problemi di distribuzione e visibilità, sta proprio cercando qualcuno che la aiuti a raggiungere questo traguardo.
Gli faccio presente che, per l’appunto, quello è il traguardo. Ma che per arrivarci serve una rete di promozione e distribuzione efficiente, ed è per quello che ci siamo rivolti a loro.
Appare sbigottito. Per lui, oggi, è inconcepibile pensare di provare a far crescere un piccolo editore. O cammina già da solo, o non se ne fa nulla. «Sa, – mi spiega con naturalezza – io devo mandare in giro i miei agenti a promuovere i libri, e li devo pagare. Non vorrà mica che io investa del mio sulla sua casa editrice?».
Be,’ sì. Perché no?
Non dovrebbe proprio funzionare che l’editore investe e rischia sulla produzione (dalla scelta fino alla stampa di un titolo) e la rete commerciale investe e rischia sulla vendita? Questo dovrebbe essere il rapporto normale, dato che gli editori (tolti i giganti che sappiamo) non hanno una propria rete commerciale e promozionale.
fiduciaOggi, in Italia, non è più così. C’è la diffusa pretesa di “investire” a rischio zero, cioè con la garanzia a priori che l’investimento rientrerà, fin da subito, con gli interessi. Chi non garantisce un fatturato già raggiunto con le proprie forze, è tagliato fuori. Non perché, sia chiaro, ha una proposta editoriale debole o titoli di scarso valore, che sarebbe spiegazione accettabile (ma i titoli neppure vengono considerati, e meno che mai letti, in sede di trattativa con un promotore o un distributore); ma perché è evidente che non ha messo, al momento di scendere in campo, l’adeguata pila di centinaia di migliaia di euro a disposizione per una massiccia campagna di stampa.
Viene spontaneo chiedersi perché, a questo punto, un editore debba rivolgersi a questi intermediari che pretendono di guadagnare (e non poco) a rischio zero, senza nulla investire né in denaro né in lavoro né in progettualità né in intelligenza. Anche perché, va detto, le logiche dei piccoli distributori sono ormai le stesse dei colossi. Forse meglio fare da soli, viene da pensare.
Ma certo, innanzitutto, sconforta constatare come in Italia, al di là dei facili slogan, la paura di scommettere, la sfiducia nel domani e la pura difesa dell’esistente (anche di ciò che si va sgretolando) siano ancora la cifra distintiva del sentimento nazionale.

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