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Lavorare con Autodafé si può. Per la promozione e la vendita

di Cristiano Abbadessa

La nostra Agora ha una decina di aree. All’interno, questi spazi si articolano in sezioni e sottosezioni, componendo un mosaico di tutte le attività che si possono svolgere in una piazza, virtuale o reale: il commercio, l’incontro, lo scambio, i servizi, i consigli, e così via. Esplorando nel profondo, ci si accorge che c’è davvero di tutto, che chiunque può trovare ciò che gli interessa e cogliere la propria opportunità.Network_Marketing_Team
Per essere precisi, diciamo che c’è quasi tutto. Manca, e non è per dimenticanza, uno spazio dove depositare i propri curriculum e proporsi per lavorare con o per Autodafé. Mancano anche altre cose, probabilmente, ma questa può saltare all’occhio perché, in effetti, una buona parte delle mail che riceviamo riguarda, da sempre, la richiesta di lavorare o collaborare con noi.
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La comunicazione invasiva e il marketing a martello

di Cristiano Abbadessa

Ogni tanto qualcuno ci scrive lamentando l’assenza, sul nostro sito, di un recapito telefonico per contattare la segreteria, la redazione o la direzione editoriale. Ovviamente non si tratta di una banale dimenticanza, ma di una scelta voluta.
Ci sono diversi motivi di carattere pratico e organizzativo a giustificare la nostra richiesta che il contatto avvenga esclusivamente via e-mail, a partire dal fatto che se in una mail si fa riferimento a un contatto precedente chiunque può recuperare nell’archivio l’intera sequenza storica del rapporto intercorso, mentre di quel che ci si è detti in una telefonata resta traccia solo nella memoria dei due interlocutori; per ragioni analoghe, in molti casi è fondamentale che resti un documento scritto della comunciazione, a evitare controversie o interpretazioni discordanti. Tuttavia, la motivazione principale della nostra scelta sta nell’eccessiva invadenza del mezzo telefonico e nelle ripercussioni che questo avrebbe sul nostro lavoro.
Ho fatto una rapida stima dei contatti quotidiani, immaginando anche quale potrebbe essere l’uso del recapito telefonico da parte di quegli autori che non hanno condiviso le nostre valutazioni, o che hanno invece superato il primo step e ci hanno inviato il manoscritto in lettura (e attendono impazienti un responso), o che hanno pubblicato con noi (o stanno per farlo). Anche facendo una previsione al ribasso, saremmo raggiunti da un numero di telefonate sufficiente a impedire, o danneggiare gravemente, il ritmo del lavoro e la concentrazione; soprattutto considerando che un lavoro redazionale, o di valutazione, richiede molta attenzione e molta cura, e non è facile riprendere il filo dopo un’interruzione. L’unica soluzione sarebbe disporre di una persona che dedichi gran parte del suo tempo a fare il lavoro di segreteria e di filtro; ma non abbiamo questa disponibilità, e in ogni caso una barriera che rimbalza i tentativi di comunicazione non sarebbe quanto auspicato da chi ci chiede il libero accesso telefonico.
Certo, nella scelta pesa il mio personale e atavico difficile rapporto con il telefono, mezzo di comunicazione mai amato, più freddo della presenza e meno fedele della scrittura. Ma, soprattutto, mezzo invasivo, prepotente, che pretende reperibilità e disponibilità senza alcun rispetto per i tempi e gli impegni di chi viene chiamato. Non è un caso che consideri l’e-mail la migliore invenzione tra quelle partorite in ambito telematico e comunicativo: sono stato fra i primi ad averla, mentre ben più tardi mi sono rassegnato ad acquistare un telefono cellulare (peraltro, lo tengo sempre spento e lo uso solo per comunicazioni più o meno concordate). L’e-mail (come skype, che va benissimo anch’esso) è rispettosa, dà modo all’interpellato di rispondere quando ne ha voglia e tempo, e proprio per questo non ammette il tono seccato o infastidito; certo, è buona educazione rispondere, ma coi propri tempi e modi. Ha grandi potenzialità di comunicazione, ma è ideale per chi non ama sentirsi “sempre connesso”, sempre disponibile per tutti e in qualunque momento. Perché la comunicazione è bellissima, ma è tanto più efficace quando avviene tra soggetti che liberamente scelgono di praticarla, senza dover rispondere a sollecitanti costrizioni.
Ora, potete immaginare una persona che ha queste inclinazioni quale tipo di reazione possa avere nei confronti dei piazzisti telefonici. E potete immaginare quanto la reazione possa inasprirsi tanto più il venditore è insistente e molesto. Al punto che, anche nei confronti dei fornitori di servizi o beni che effettivamente acquisto, finisco per mantenere i rapporti con coloro che limitano il contatto a sporadiche circostanze e toni rispettosi, mentre finisco per cancellare dall’orizzonte quelli che mi tampinano con pervicace frequenza. Quindi, coerentemente, ho volentieri sospeso per una decina di giorni i miei appelli relativi all’abbonamento, quando mi è stata più o meno fatta balenare l’immagine dell’importuno e insicuro fidanzatino del “mi ami? ma quanto mi ami?”. Ciò non toglie che tra una decina di giorni tireremo le somme, e a questo punto mi pareva perlomeno doveroso ricordarvelo, senza altro aggiungere. O forse sì, perché se io sono fatto in un certo modo, può essere che molti siano fatti in maniera del tutto diversa; e non posso fare a meno di notare che quando ho scrollato le coscienze con accorati appelli qualche adesione è arrivata, mentre l’indifferenza domina quando lascio rispettosamente spazio alla maturazione di una scelta ponderata e non forzata.
A proposito di somme da tirare e di abbonamento: qualcuno ha provato a chiedere, o a capire, quale sia la soglia minima fissata per far partire la campagna. Non risponderò a questa domanda: mi limiterò a dire che il numero non fa ovviamente riferimento a stime o percentuali basate sull’universo dei lettori italiani, ma che è una proiezione realistica del piccolo pianeta formato da quanti hanno lavorato con noi, ci hanno espresso pubblica stima e incoraggiamento, hanno seguito e apprezzato il nostro lavoro; e aggiungerò che si tratta di una soglia minima cui corrisponderebbe un incasso ragionevole, che darebbe un senso all’iniziativa anche dal punto di vista gestionale.
Numeri non ne faccio, pubblicamente. Anche perché quando li ho fatti, gli interlocutori si sono equamente divisi tra coloro che hanno trovato la soglia esageratamente alta, irraggiungibile e totalmente utopistica, e quanti l’hanno considerata davvero minima, irrilevante, poco oltre la cerchia amicale e non significativa di un nuovo modello di commercializzazione. Io posso solo ribadire che il raggiungimento di quella soglia, per noi, sarebbe un punto di partenza ottimale; certo, non l’obiettivo definitivo, ma sicuramente una base su cui costruire con qualche certezza in più.
Ma numeri non ne faccio. Perché vorrei proprio evitare che qualcuno sia indotto a dire “la mia prenotazione è inutile, tanto non ce la faranno mai” oppure “la mia prenotazione è superflua, tanto raggiungeranno con facilità la soglia per partire, poi mi aggregherò”. Chi sta pensando se aderire, sappia senza equivoci che la sua prenotazione è assolutamente vitale. Poi, ciascuno si regola come crede.

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AAA autori cercasi: astenersi migranti, no anonimi

di Cristiano Abbadessa

Una delle soddisfazioni maggiori del nostro lavoro, per quanto effimera, è la stima che ci viene decretata dagli autori ai quali rispondiamo che le loro opere, per contenuti o per stile, non possono essere prese in considerazione per una pubblicazione. Molti, una volta ricevuta la notizia negativa, ci riscrivono ringraziandoci, perché, se non altro, siamo tra i pochi a rispondere alle proposte e a fornire un minimo di motivazione. A fronte dei tantissimi aspiranti scrittori che ci hanno ringraziato dopo la “bocciatura”, ve ne sono alcuni, ma che si contano davvero ulle dita di una mano, che non hanno accettato la valutazione e hanno polemizzato, anche con sgarbo. Volendo anche presumere (e noi dobbiamo farlo per forza) che la risposta fornita dalla nostra redazione fosse cortese e non dovesse dare adito a rimostranze, possiamo comunque concludere che abbiamo incontrato una percentuale di presuntuosi o maleducati infinitamente inferiore alla percenuale media che si ritrova nella vita di tutti i giorni. Il che può far pensare che la categoria degli aspiranti scrittori includa esemplari umanamente un po’ più sensibili e cortesi rispetto alla popolazione italiana nel suo insieme.
Fin qui tutto bene. E si tratta di questioni cui ho già fatto cenno altre volte. Quel che invece mi lascia un po’ sorpreso riguarda le proposte provenienti da una particolare categoria di autori.
Sono infatti arrivate in redazione, nel corso di un anno e passa, alcune proposte (in verità pochissime) avanzate da aspiranti autori italiani residenti all’estero: migranti in via definitiva o comunque per un tempo non breve, con il rientro in patria non ancora nei programmi futuri (o in programma di lì ad almeno un paio d’anni).
Nessuna delle proposte pervenuteci da questi autori era meritevole di pubblicazione: ora per scarsa attinenza tematica al nostro progetto editoriale, ora per una qualità discutibile. In ogni caso, dopo aver motivato la nostra scelta, la redazione si è permessa di spiegare a questi aspiranti autori che una piccola casa editrice non potrebbe mai pubblicare opere di un autore che risiede stabilmente all’estero, perché la presenza fisica dell’autore alle iniziative promozionali è essenziale e perché il legame con un territorio, o con una comunità, è ulteriore elemento di forza.
Puntualmente, tutti gli autori residenti all’estero cui abbiamo fatto presente questo problema, ci hanno risposto in tono molto piccato, sottolinenado che nulla avevano da eccepire sulla valutazione delle loro opere, ma che non dovevamo permetterci di porre in discussione delle scelte di vita personali.
Ora, è chiaro che la questione non dovrebbe essere posta in questi termini, salvo malintesi. Nessuno ha mai pensato di discutere le scelte di vita personali (magari a volte forzate dalle scarse opportunità offerte dal nostro paese, e perciò vissute con un disagio interiore che non predispone al dialogo; oppure rivendicate orgogliosamente come atti di coraggio compiuti da chi sente di avere la capacità di mettersi in gioco); però dovrebbe essere ovvio che, come sempre, compiere alcune scelte apre delle strade ma ne preclude altre.
Non sarà allora inutile provare a ricordare, a bocce ferme e senza che ci siano “casi personali” in questione, che per un piccolo editore è assolutamente impensabile fare a meno della presenza fisica e della fattiva collaborazione dell’autore al momento di promuovere un libro. Ed è il motivo per cui, allo stesso modo, non possono essere prese in considerazione le proposte editoriali di autori che, per varie e a volte comprensibili ragioni, pretendono di mantenere l’anonimato. Un autore che non esiste, o che non è presente, è per il piccolo editore un lusso insostenibile: pubblicarlo, vuol dire decretare il sicuro fallimento dell’opera, cosa che poi non può far piacere neppure all’autore stesso, come ovvio.
Peraltro, se fin qui ho parlato delle esigenze del piccolo editore, sarà bene ricordare anche che gli stessi editori medi o grandi prevedono, per gli autori da promuovere, stressanti tour in varie tappe e sedi, e che non ammettono latitanze o ritrosie. In effetti, se un autore anonimo o residente all’estero vede accettata una sua proposta, più che gioire ha di che preoccuparsi: perché vi potrà leggere il segnale inequivocabile di un libro (il suo) che viene pubblicato per fare volume di produzione, ma che non verrà promosso o sostenuto.
Esiste, in una mitologia arcaica che ogni tanto riaffora, l’ingenua convinzione che l’opera anonima o dell’autore invisibile sia destinata al successo per l’attrazione che eserciterebbe sui lettori quell’alone di mistero che la circonda. Ma si tratta, va detto con chiarezza, di pie e inopportune illusioni.
Probabilmente i casi che ho evocato, e che mi hanno spinto a questa ricapitolazione, sono solo il frutto di un pizzico di ignoranza circa quello che è oggi il mestiere dell’autore, coi suoi annessi e connessi.
Oppure, temo, sono la spia di una più diffusa sensazione: che quello dell’autore non sia un mestiere ma un’attività da esercitare a tempo perso, nei ritagli concessi da altre occupazioni, e per il quale non è richiesta la metodica e quotidiana fatica e tantomeno la presenza; una sorta di sport amatoriale nel quale si può eccellere senza sforzo e senza allenamento, limitandosi alla saltuaria esibizione. Ma, se così fosse, la cosa sarebbe ancora più grave.

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La parabola dei due figli (ancora sull’abbonamento)

di Cristiano Abbadessa

«Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?» (Vangelo di Matteo 21, 28-31).
Forse dipende dal fatto che Gesù parlava agli uomini del suo tempo (la folla, infatti, rispose: «L’ultimo»). Oppure, come direbbe qualcuno, dipende dal fatto che era un inguaribile ottimista intriso di visioni utopistiche. Certo è che ho il forte sospetto che, chiamata a rispondere sinceramente, una folla odierna non potrebbe che individuare nel primo figlio il modello da seguire. Tanto più che la parabola, con un pizzico di malizia, non ci dice se il padre abbia poi saputo chi è andato a lavorare nella vigna, ma sottintende piuttosto che se ne sia disinteressato, lasciando i figli alle prese coi propri doveri e con la propria coscienza.
Oggi molti apprezzerebbero la pronta e disinvolta rassicurazione fornita dal primo figlio, di certo condita da un sorriso aperto e da un apparente attivismo; così come troverebbero degna di biasimo la svogliata ritrosia del secondo, certo accompagnata da un moto di fastidio e manifestata con una risposta mugugnata a mezza bocca. Se poi, per un malaugurato caso, la verità venisse a galla, è facile immaginare il primo figlio pronto, con la massima sfrontatezza, a giustificare l’assenza con sopravvenuti impegni, di certo più incombenti e più importanti nell’ottica della gestione familiare; mentre il secondo rivendicherebbe l’opera svolta con la tigna di chi rinfaccia, con l’ovvio contorno di lamentazioni e facendo pesare il senso del dovere. Molti, insomma, direbbero oggi che il primo figlio ha saputo fornire una buona immagine di sé, mentre il secondo, al di là dei meriti, resta uno che non si sa vendere.
La parabola mi è tornata alla mente perché, ultimamente, mi sono imbattuto in un numero un po’ eccessivo di “primi figli”.
Per esempio, qualche giorno fa avevamo un paio di autrici che, dalle 13 alle 15, avrebbero risposto su facebook alle domande dei lettori, nell’ambito del BookAvenue BookFestival. In mattinata, prima che partisse l’iniziativa, sulle pagine fb era un fiorire di amici che garantivano la loro presenza, che lodavano l’idea, che promettevano la partecipazione. Al dunque, il silenzio totale e un’assenza di partecipanti che si è tradotta in un’improvvisata, e paradossale, reciproca intervista fra le due autrici in linea.
La cosa mi ha lasciato sbigottito, anche se (o forse: proprio perché) sembra rispecchiare un diffuso spirito dei tempi. Tempi in cui, per dire, se si lancia l’idea di una serata in compagnia si viene subissati immediatamente di adesioni entusiastiche, pronunciate però da persone che poi, all’approssimarsi della data, si sfilano via via invocando impegni improvvisi e imprevisti; e, magari, lasciando con un palmo di naso chi aveva atteso qualche giorno a aderire per essere certo della propria presenza e, faticosamente liberatosi, si ritrova con l’appuntamento saltato.
Qualcosa di simile, temo, sta avvenendo anche intorno alla nostra campagna abbonamenti. Che ha subito smosso qualche commento entusiasta e diverse promesse di pubblicizzazione dell’iniziativa, senza invece suscitare voci critiche che potevano anche essere messe nel conto. Incuriosisce però che molti degli entusiasti della prima ora si siano ben guardati dal sottoscrivere l’abbonamento-sostegno seguendo le modalità previste.
Ora, è chiaro che la disponibilità a promuovere e veicolare la nostra campagna è bene accetta e degna di mille ringraziamenti. Non vorrei però che tutti finissero per farsi promotori di una iniziativa alla quale si guardano bene dall’aderire. Abbiamo scartato l’idea di fare un sondaggio sulla proposta e di avviare da subito, invece, le prenotazioni per l’abbonamento effettivo proprio per evitare di ritrovarci vittime di equivoci spiacevoli.
Chi condivide la proposta, per favore, come primo atto aderisca e prenoti il proprio abbonamento. Poi, se gli è possibile e se lo vuole, sarà tanto più benemerito quanto più riuscirà a coinvolgere altri amici, conoscenti e lettori in genere; ma questo, appunto, è il passo successivo. Perché non vorrei che ci ritrovassimo, alla scadenza fissata, circondati da sorrisi rassicuranti ma con tutti i grappoli a marcire nella vigna in cui nessuno ha lavorato.

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Belgioioso: la fiera non c’è, ma i piccoli editori esistono

di Cristiano Abbadessa

Nel prossimo fine settimana, secondo il calendario tradizionale in vigore da anni, la piccola editoria sarebbe stata in mostra nella storica fiera del settore presso il Castello di Belgioioso. Il periodo è questo, ma quest’anno la fiera non ci sarà.
Storico appuntamento per i piccoli editori di tutta Italia, la rassegna di Belgioso aveva consolidato per lungo tempo un suo specifico: luogo di incontro tra editori, autori e lettori, con contorno di operatori del settore a vario titolo e di media; luogo di confronto e circolazione di idee più che mostra-mercato, a differenza delle tante microesposizioni (alcune anche ambiziose) che sono proliferate negli ultimi anni e che rappresentano più che altro occasioni di vendita.
L’esperienza dello scorso anno a Belgioioso, per la nostra prima volta da espositori, non era stata a dire il vero esaltante, e già l’appuntamento mostrava tutti i segni di un declino annunciato. Meno pubblico, limitato a pochi appassionati e a qualche visitatore casuale e non necessariamente competente. Tante disfunzioni organizzative, alcune davvero fastidiose, figlie di un’approssimazione sconcertante. Qualche espositore in meno, soprattutto con l’evidenza di alcune assenze di rilievo, di editori che avevano fatto la storia dell’evento. Scarsa visibilità mediatica e scarsissima copertura giornalistica, con la stampa praticamente latitante.
In effetti, proprio per chi aveva prestato attenzione a quest’ultimo aspetto, il declino di Belgioioso era fenomeno ampiamente annunciato. Se in anni non lontani tutti i maggiori quotidiani si occupavano della rassegna, anticipandola con un paginone ricco di dati di voci e di idee riferiti al settore della piccola editoria, lo scorso anno la fiera aveva trovato spazio sulla stampa solo in miseri e infastiditi trafiletti che si limitavano a segnalarne l’esistenza. Dall’attenzione curiosa i media erano passati alla notizia sintetica, e c’era quasi da ringraziare per lo svolgimento della mera funzione informativa. E non poteva sfuggire che non si trattava di scelta casuale, ma del segno di un definitivo collateralismo tra grande stampa e grande editoria libraria, sempre più intrecciate in rapporti propietari o promozionali.
Infatti, già alla fine dell’edizione dell’anno passato i piccoli editori attendevano l’inevitabile scomparsa di Belgioioso dal calendario fieristico (e c’era persino stato un sussulto di iniziative per “salvare Belgioioso”, però più ricorrendo alle mozioni degli affetti che alle solide ragioni di una realtà culturale e imprenditoriale). La scomparsa si è poi materializzata nel silenzio. Dicono gli organizzatori, interpellati, per mancanza di sostegno da parte delle istituzioni locali; il che ovviamente non stupisce, semmai ribadendo il collateralismo anche tra la politica (nelle sue declinazioni partitiche maggioritarie) e la grande editoria (ma potremmo anche dire la grande industria o le grandi catene commerciali, e in generale tutto ciò che è potere economico e finanziario forte, in Italia e fuori).
Eppure, proprio per la chiarezza di tanti segnali e per l’evidenza del loro significato, la piccola editoria avrebbe dovuto fare di tutto per tenere in piedi l’evento. Perché, storicamente, Belgioioso era il luogo adatto per confrontarsi e parlare, per dare voce a chi non ha accesso ai media, alla distribuzione, ai punti vendita, alla notorietà di chi forma le opinioni.
Sarebbe stata un’occasione ideale, e più che mai necessaria, per parlarsi tra simili. Non per dare sfogo alle solite sterili lamentazioni o per stabilire artificiosi e sgradevoli confini tra buoni e cattivi, puri e asserviti (categorie che talora ricorrono e spostano il problema su un piano etico che diventa fuorviante). Ma per prendere atto che, semplicemente per una questione di legittimi interessi divergenti, l’editoria si è ormai separata in almeno due (o forse più) binari paralleli, che per ora sono destinati a non incontrarsi mai più, ma che già cominciano a correre persino in direzioni diverse. E, di conseguenza, per riconoscere che i piccoli editori devono trovare risposte nuove all’oscuramento mediatico, all’ostracismo distributivo e alla scarsa attenzione dei librai (persino di quelli indipendenti, nella maggior parte dei casi). E, quindi, per provare a fare sistema, a uscire dalla ridotta del proprio particolare per provare a battere insieme strade alternative, anziché porsi arrancando nella scia dei grandi, scimmiottandone le logiche e le prassi al solo scopo di raccogliere qualche briciola.
Belgioioso sarebbe stata l’occasione per vedersi, incontrarsi, parlarsi e trovare, insieme, delle risposte concrete, realistiche, non fumose; e per tentare, di lì a subito, di metterle in atto.
Noi di Autodafé eravamo pronti a partecipare alla fiera con questo spirito. Ma, mancando il luogo deputato all’incontro, ce ne è mancata la possibilità.
Vorrà dire che faremo da soli, e troveremo le nostre risposte.
E, per fare un po’ meno da soli, speriamo che le risposte siano condivise almeno da voi che ci seguite.

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Luoghi comuni dell’editoria

di Cristiano Abbadessa

Scambio alcune impressioni con un piccolo editore (molto piccolo, praticamente attivo su scala locale) e mi dice: «Per prima cosa ho cercato il distributore, poi sono partito. Perché se non hai un distributore, non sei un editore». Mi domando come abbia fatto a trovare un distributore (di medio calibro: non uno di quelli grandi e nazionali, ma comunque uno stimato a livello locale) senza avere un piano editoriale da proporre, ma sorvolo. Gli chiedo invece se il distributore lavora bene, se ne è soddisfatto. «No, si limita a piazzare qualche copia nell’unica grande catena con cui ha rapporti, ma senza darci visibilità. Per il resto, io mi giro le librerie indipendenti e distribuisco per conto mio».
Se parlo con autori e lettori, mi sento spesso dire che “un libro non esiste se non lo si trova in libreria”. Però, se chiedo quanti libri “scoprano” nella libreria, mi rispondono che questo non avviene mai o quasi, e che vanno in libreria ad acquistare titoli di cui hanno già sentito parlare.
Mi si rafforza insomma il sospetto che dietro certe affermazioni apodittiche, apparentemente sensate, si nascondano dei vieti luoghi comuni inadatti a fotografare la realtà attuale dell’editoria. A che mi serve avere un distributore se non prova nemmeno a far circolare i miei libri nei canali potenzialmente interessanti? A cosa mi serve cercare il contatto con le librerie per far esporre dei titoli che non verranno mai presi in considerazione dai lettori?
La sorte commerciale di un titolo si decide altrove: nella promozione, nella pubblicità, nella comunicazione verticale e orizzontale. La filiera tradizionale va bene per i grandi editori che hanno grandi mezzi per investire in comunicazione verticale, per far girare nelle teste dei lettori (magari anche dei lettori meno consapevoli e motivati) quei titoli che vanno necessariamente acquistati a colpo sicuro in una qualsiasi libreria, perchè se non trovi quello ne compri un altro.
Ma il piccolo editore, troppo spesso, non ha un “potenziale” bacino d’utenza: ha degli acquirenti molto motivati per il singolo titolo, che lo cercano e, se non lo trovano, lo ordinano al libraio. Ma perché, a questo punto, devo prendermi la briga di rifornire un libraio (o un distributore) che si limita a passarmi ordini per copie già prenotate e, quindi, virtualmente vendute al lettore? Perché devo lasciare una sostanziosa percentuale in mano a uno che si limita a passare le carte? Non sarebbe più opportuno, più rapido, e alla fine meno costoso per tutti, un rapporto diretto tra editore e lettore?
Sono temi intorno ai quali abbiamo già ragionato. Ma è probabilmente il momento di passare dalla filosofia alla prassi. Buttando a mare i luoghi comuni e cercando di guardare le cose da un punto di vista più realistico, magari meno romantico ma senza inutili velature. E di agire di conseguenza.

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Autori, proposte editoriali e piccolo marketing personale

di Cristiano Abbadessa

Fra le proposte di pubblicazione ricevute, alcuni mesi fa, mi è capitato fra le mani un agile libercolo che “insegnava” a preparare un curriculum professionale; non, però, utilizzando gli schemi teorici del cosa dire e cosa evitare, bensì partendo da alcuni reali esempi “comici”, con errori marchiani o inadeguatezze, messi in fila per divertire il lettore e offrire lo spunto di qualche consiglio utile. Idea non nuova e peraltro poco pertinente alla narrativa, per cui distante dalla nostra linea editoriale, e inevitabilmente scartata.
Ciò non toglie che la prima, immediata, considerazione che mi è venuta in mente sia stata che sarebbe stato divertente, e per certi versi istruttivo, realizzare un prodotto simile mettendo insieme gli errori concettuali, gli autolesionismi e le negligenze surreali di troppi aspiranti autori che si propongono all’editore in maniera del tutto inadeguata, utilizzando modalità e approcci spesso controproducenti.
Ovviamente l’idea non è mai stata presa in considerazione, perché, come quella dei curriculum, aveva, tra le altre cose, il principale difetto di dileggiare in modo sgradevole (anche se anonimo) persone che si erano rivolte con fiducia e con speranza a un interlocutore, di solito in perfetta buona fede, e che non meritavano di essere messe alla berlina per i loro peccati (a volte anche veniali).
Resta però vero che la maggior parte delle proposte editoriali provenienti dagli autori arriva all’editore veicolando un messaggio e una presentazione che creano dei presupposti, e dei pregiudizi, sfavorevoli; anche, o forse soprattutto, quando l’intenzione sarebbe opposta.
Non mi riferisco qui, in particolare, ai casi di evidente inadeguatezza complessiva, quelli in cui non vi è alcun talento nella scrittura e non vi è alcuna idea di come funzionino i rapporti tra autore e editore. Né mi riferisco ai casi di palese e quasi provocatoria sciatteria, in cui spesso a una cattiva presentazione fa seguito un testo (magari neppure da buttare, nelle intenzioni e nelle intuizioni) allegramente infarcito di errori grammaticali e refusi, di sicuro mai riletto, spedito in giro senza nessun timore dell’ovvia figuraccia.
I casi che attirano l’attenzione di una redazione sono altri: presentazioni accurate ma indirizzate all’editore concettualmente sbagliato, piccole disattenzioni che suscitano reazioni negative, candide ammissioni di ignoranza che non invogliano l’editore all’investimento. Soprattutto, la sensazione che gli autori, nel presentare la propria opera, tengano molto a “essere se stessi”, a non adeguarsi in alcun modo all’interlocutore e a perseguire la propria strategia (che può essere raffinata o naïf, questo non conta) seguendo schemi invariabili.
Può essere un caso, ma può anche dipendere da un po’ di cattiva “letteratura” che circola nella rete. Perché non è impossibile trovare consigli e piccoli vademecum su “come presentare l’opera all’editore”, ma il più delle volte si tratta di insegnamenti fuorvianti, che non tengono mai nel dovuto conto di specificare a chi si sta rivolgendo la proposta. Ed ecco che, ancora una volta, l’esistenza di mondi paralleli come la grande e la piccola editoria finisce per creare grossi equivoci: perché i consigli che circolano sono forse buoni per catturare l’attenzione dei grandi editori (che di solito cestinano quasi tutto molto rapidamente), ma non per fornire gli adeguati strumenti di valutazione a una redazione che, da subito, vorrebbe capire bene che opera si trova a valutare.
L’impressione è che a molti aspiranti autori servirebbe davvero un breve corso e qualche buon consiglio, per imparare a proporsi in modo onesto, né ammiccante né saccente, ma efficace, completo e chiaro. Ed è un’idea sulla quale, forse, vale la pena di lavorare.
In ogni caso, due consigli, peraltro consequenziali, possono essere spesi fin da subito a beneficio di chi si appresta a sottoporre la propria opera letteraria a un editore. Primo: abbiate ben chiaro a chi vi state rivolgendo, perché esistono mille differenze (di dimensioni, scelte, linee programmatiche, disponibilità economiche, qualità e capacità commerciali) che rendono ogni editore diverso da un altro, e non vi è nulla di più sbagliato di una presentazione identica e seriale rivolta indistintamente a chiunque. Secondo: l’autore non deve “imparare a vendersi bene” ma deve essere chiaro e onesto, perché non si tratta di “piazzare” un prodotto ma di far incontrare due esigenze, due attori che devono essere reciprocamente convinti di avere un interesse in comune e riporre fiducia nell’opera in questione. Per dirla in modo moderno, anche l’autore deve elaborare una strategia marketing oriented, mentre troppo spesso è fermo al selling oriented del vecchio piazzista che infila il piede nella porta del (non) cliente.

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