di Cristiano Abbadessa
Il quarto di finale degli europei di calcio tra Germania e Grecia, giocato venerdì scorso, si è prestato nella vigilia a facili giochi sul filo di una interpretazione politico-economica dell’evento: l’hanno chiamato “derby dello spread”, è stato sottolineato il sentimento di rivalsa dei greci contro i “colpevoli” della loro situazione economica, si è posto l’accento sulla voglia di riscatto prettamente nazionale (in senso buono) opposta a una storica ansia di egemonia continentale. Da parte di quasi tutti quelli che si sono prestati al gioco trasparivano evidenti simpatie per i poveri piccoli e maltrattati greci e l’antipatia per i potenti dominanti e arroganti tedeschi.Essendo appassionato di calcio, e assai più sportivo che tifoso, mi sono sottratto. Sono infatti solito distribuire le mie simpatie, sempre pacate, in ragione del merito e della qualità delle squadre in campo, quasi mai lasciandomi prendere da pregiudizi etnici o politici. In questo senso, mi sembrava inevitabile auspicare la prevedibile e meritata vittoria dei tedeschi, che esprimono oggi il gioco più propositivo del calcio mondiale, con fina grana tecnica, grande rapidità di esecuzione e una costante ricerca della verticalizzazione verso la porta avversaria, ben diversamente da quella ormai noiosa e interminabile masturbatio pilae (avrebbe detto Gianni Brera) in cui si consumano le partite degli spagnoli, gli altri grandi favoriti del torneo.
Al netto delle valutazioni tecniche, debbo però dire che anche altre considerazioni mi avrebbero impedito di provare una particolare simpatia per i tartassati greci. Magari fino a due o tre mesi fa certi sentimenti erano condivisibili, e il ruolo di mere vittime poteva attagliarsi ai greci. Dopo la doppia tornata elettorale, direi proprio di no. Perché se il grande capitalismo e la finanza internazionale ti rifilano calci nei denti, ti espropriano della democrazia, cancellano la tua sovranità nazionale, gettano tranquillamente sul lastrico buona parte del tuo popolo, ti colonizzano e ti impongono una sorta di servitù, il minimo che dovresti avere è un concreto scatto di orgoglio. Se invece, pure a fatica, alla fine voti e fai vincere quella coalizione che si offre come cameriere del padrone e fedele esecutore degli ordini, rinunciando alla possibilità di ridiscutere i patti e di diventare il primo significativo esempio di fuoruscita dal capitalismo finanziario globalizzato (pagando dei prezzi, ma anche costituendo un modello che l’indomani potrebbe fare proseliti e alleati), be’, allora arrangiati e non venire a chiedere la mia solidarietà, la mia comprensione e la mia partecipe simpatia. Perché sarai pure una vittima, ma adesso ci stai mettendo del tuo per crogiolarti in quel ruolo senza far nulla per uscirne.
Quella verso il popolo greco è la stessa istintiva reazione che provo verso tanti soggetti del mondo editoriale (e non solo, peraltro). Grandi lamentazioni, denunce contro la struttura oligopolista del settore, disprezzo per le logiche di marketing più smaccatamente estranee a qualsiasi progetto culturale. A parole. Poi, nei fatti, si tratti di editori o di librai, di autori o di commerciali, la rassegnazione ad adattarsi, il tentativo di ritagliarsi un piccolo posto sullo strapuntino dei potenti e la sistematica rinuncia a esplorare, seriamente e con generosità, qualsiasi alternativa al modello tanto vituperato.
Credo ci sia lo spazio per pensare e agire in modo diverso, unendo le forze e le idee. Ma con i compagni di strada giusti, quelli che non amano il mugugno lamentoso fine a se stesso.
Aggiungo un paio di riflessioni successive alla lettura di un articolo che raccontava come i bambini e i ragazzini immaginassero la biblioteca del futuro, letto qualche giorno fa.
Faceva specie notare come molti, per prima cosa, avessero immaginato una biblioteca virtuale, in cui la prima figura a scomparire era quella del bibliotecario. Cosa che in realtà non mi stupisce più di tanto, perché ricordo i miei temi “di fantasia” alle elementari e mi rendo conto che anch’essi trasudavano una passione per le meraviglie futuriste di una robotica il cui scopo era, al fondo, quello di eliminare relazioni umane che infastidissero o turbassero il naturale e smodato egocentrismo tipico di ogni fanciullo
Mi preoccupava di più, qualche anno fa, un amico non più fanciullo che in una certa fase della sua vita si divertiva a porsi domande e trovare risposte in una sorta di reiterato problem solving relativo all’efficacia di alcuni servizi, dalle code nei supermercati all’ottenimento dei certificati anagrafici. Ogni volta la fantasiosa soluzione tecnologica prevedeva la cancellazione di alcune figure lavorative, seppure a bassa qualificazione.
Ora, magari il bibliotecario è un mestiere bello utile e interessante, mentre altre manovalanze somigliano più a piccoli ingranaggi di una ripetitiva catena di montaggio, e chi svolge quel lavoro ne farebbe volentieri a meno, potendo. Resta però il fatto che, finora, alla cancellazione dei lavori ha sempre corrisposto solo l’arricchimento del capitalista, mai la redistribuzione sociale degli utili.
Quando ero bambino, mio padre mi diceva, con l’ottimismo di chi era stato ragazzo durante una guerra e aveva misurato la miseria vera prima di conoscere la rinascita e l’effimero “boom”, che immaginava un progresso tecnologico in grado di liberare l’uomo dalla necessità del lavoro. Pensava che si sarebbe lavorato poche ore alla settimana a testa, giusto per dovere sociale, e che la sovrapproduzione avrebbe reso beni e servizi alla portata di tutti, a prezzi stracciati o persino gratuitamente. Giova precisare che mio padre non è mai stato comunista, ma che trovava semplicemente naturale che il progresso dovesse essere fatto per l’uomo (tutti gli uomini) e non contro l’uomo.
Le grandi leggi economiche, fatte da uomini e non certo di natura, impongono che le cose vadano diversamente. E noi tutti, come i greci, ci acconciamo a rispettarle, difendendo con le unghie gli ultimi lembi di personale e privato (relativo) benessere. Almeno fino a quando non capiremo che noi siamo tanti e loro pochissimi. E, ciascuno per quanto gli compete, andremo tutti insieme a riprenderci quel che ci è stato tolto.
Direttore questo suo articolo lo faccio totalmente mio.
Nel romanzo che ora sto correggendo ho in parte trattato la questione della precarietà, anche alla luce di quanto mi sta accadendo realmente.
“In Istituto, nei corridoi più che nelle assemblee, l’eventualità della chiusura era stata innumerevoli volte sollevata: ciclicamente le questioni contrattuali si proponevano e scomparivano, soffocate dalle continue consegne e dall’illusione di una precarietà solo formale. I continui rinvii nelle procedure di stabilizzazione non scalfivano la fiducia collettiva in una struttura che continuava a prender nuovi collaboratori. Capitava che qualcuno, magari sotto pressione o in un momento di lucidità improvvisa, ardisse denunciare il rischio di uno scenario spaventoso: la disoccupazione tardiva, invecchiati nelle competenze e fiaccati nella potenzialità. La risposta della maggioranza era esorcizzare quell’incubo chiedendo mutui, facendo figli, non rinunciando a un viaggio dall’altra parte del mondo, ché altrimenti il lavoro ti mangia l’anima. Nonostante tutto si confidava in un’assunzione benedetta, che sarebbe stata prima o poi concessa, al di là del bene e del male. ”
Al di là della finzione letteraria (se così vogliamo chiamarla) sono al momento alle prese con una prossima procedura concorsuale che dopo dieci anni di precariato stabilirà per qualcuno il merito (va be’) di avere il posto fino alla pensione, per altri la disoccupazione. Non entro nel merito maggiormente, non è il caso. Fatto sta che tutti sappiamo che le condizioni che si presenteranno saranno molto complicate, che non c’è garanzia anzi, che è probabile per molti sia impossibile entrare. Ma lo sapevamo e lo sappiamo e ciò nonostante la scelta è stata quella di allinearsi, ognun per sè e dio per tutti. Ho provato a esser rappresentante dei precari per un paio d’anni ma quel che emergeva era proprio questo: nessuna solidarietà, nessuna ricerca di un’alternativa, solo il desiderio di dar poco fastidio a chi poteva un giorno elargire una compassionevole concessione. E ora siamo al concorso in stile spaghetti western. Nessuna disperazione, non ancora almeno per me. Ripeto, ho provato a fare le cose diversamente ma non è stato possibile, non era quello che la maggioranza, amplissima, realmente desiderava. Abbiamo preferito giocare questa partita un po’ come Sordi e la Vitti allo scopone scientifico: e adesso ci avviamo tristemente a scoprire che il futuro è in ostaggio.
Se avessimo una squadra di calcio coi nostri colori non vedo perchè qualcuno dovrebbe simpatizzare per noi, che non abbiamo in alcun modo operato per una discontinuità, per capovolgere la macchina perpetuativa di un piccolo potere. Le ragioni le ho ben chiare ma concederei troppe parole al livore, per cui preferisco raffreddarne il senso e lavorarci su con la scrittura. Non servirà a nulla, ma è il mio modo di assolvere a un dovere morale purtroppo ridotto alla portata misera delle mie mani.