Una risposta a “Piccole storie di autolesionismo e rassegnato fatalismo

  1. A.

    Direttore questo suo articolo lo faccio totalmente mio.
    Nel romanzo che ora sto correggendo ho in parte trattato la questione della precarietà, anche alla luce di quanto mi sta accadendo realmente.
    “In Istituto, nei corridoi più che nelle assemblee, l’eventualità della chiusura era stata innumerevoli volte sollevata: ciclicamente le questioni contrattuali si proponevano e scomparivano, soffocate dalle continue consegne e dall’illusione di una precarietà solo formale. I continui rinvii nelle procedure di stabilizzazione non scalfivano la fiducia collettiva in una struttura che continuava a prender nuovi collaboratori. Capitava che qualcuno, magari sotto pressione o in un momento di lucidità improvvisa, ardisse denunciare il rischio di uno scenario spaventoso: la disoccupazione tardiva, invecchiati nelle competenze e fiaccati nella potenzialità. La risposta della maggioranza era esorcizzare quell’incubo chiedendo mutui, facendo figli, non rinunciando a un viaggio dall’altra parte del mondo, ché altrimenti il lavoro ti mangia l’anima. Nonostante tutto si confidava in un’assunzione benedetta, che sarebbe stata prima o poi concessa, al di là del bene e del male. ”
    Al di là della finzione letteraria (se così vogliamo chiamarla) sono al momento alle prese con una prossima procedura concorsuale che dopo dieci anni di precariato stabilirà per qualcuno il merito (va be’) di avere il posto fino alla pensione, per altri la disoccupazione. Non entro nel merito maggiormente, non è il caso. Fatto sta che tutti sappiamo che le condizioni che si presenteranno saranno molto complicate, che non c’è garanzia anzi, che è probabile per molti sia impossibile entrare. Ma lo sapevamo e lo sappiamo e ciò nonostante la scelta è stata quella di allinearsi, ognun per sè e dio per tutti. Ho provato a esser rappresentante dei precari per un paio d’anni ma quel che emergeva era proprio questo: nessuna solidarietà, nessuna ricerca di un’alternativa, solo il desiderio di dar poco fastidio a chi poteva un giorno elargire una compassionevole concessione. E ora siamo al concorso in stile spaghetti western. Nessuna disperazione, non ancora almeno per me. Ripeto, ho provato a fare le cose diversamente ma non è stato possibile, non era quello che la maggioranza, amplissima, realmente desiderava. Abbiamo preferito giocare questa partita un po’ come Sordi e la Vitti allo scopone scientifico: e adesso ci avviamo tristemente a scoprire che il futuro è in ostaggio.
    Se avessimo una squadra di calcio coi nostri colori non vedo perchè qualcuno dovrebbe simpatizzare per noi, che non abbiamo in alcun modo operato per una discontinuità, per capovolgere la macchina perpetuativa di un piccolo potere. Le ragioni le ho ben chiare ma concederei troppe parole al livore, per cui preferisco raffreddarne il senso e lavorarci su con la scrittura. Non servirà a nulla, ma è il mio modo di assolvere a un dovere morale purtroppo ridotto alla portata misera delle mie mani.

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